Il declino industriale italiano raccontato con pochi ma
significativi numeri: la prova che l’idea secondo la quale per far crescere
un’economia bisogna ridurre i salari, ridurre la presenza dello Stato,
eliminare “lacci e lacciuoli” (vedi l’articolo 18 e lo statuto dei lavoratori)
e lasciar fare al mercato è una bufala. I numeri sono quelli messi in evidenza
nei primi capitoli del dossier sul mercato del lavoro, presentato mercoledì dal
Cnel, nei quali l’istituto di ricerca evidenzia la distanza (ormai forse
incolmabile) che separa i nostri livelli di produttività da quelli del resto
dei paesi europei. Ma non è sempre stato così. C’è stato, infatti, un tempo nel
quale l’Italia guidava la classifica della produttività. E, guarda il caso, era
lo stesso tempo nel quale i salari erano i più alti, c’era la scala mobile,
entrava in vigore un moderno welfare, nasceva lo statuto dei lavoratori, il
conflitto tra capitale e lavoro era ai suoi massimi. E’ il decennio degli anni
Settanta, quando il cosiddetto output per ora lavorata (cioè, appunto, la
produttività del lavoro) nel nostro Paese cresceva con una media del 6,5%
annuo, contro il 2,7 di un gigante come gli Stati Uniti, il 2,4 del Regno
Unito, il 4 della Germania e il 4,2 della Francia. Contemporaneamente (ed ecco
svelato un altro bluff), il costo orario del lavoro era il più alto: 19,2% in
Italia; 8,8 negli Usa; 10 in Germania; 18,1 nel Regno Unito ecc. Così come lo
era anche il costo per unità di prodotto: quasi il 12% di variazione annua in
Italia, contro il 6 degli Usa, il 7,8 del Giappone, il 5,7 della Germania, il
10 della Francia. Ciò evidentemente, non costituiva un impedimento alla
crescita e allo sviluppo manufatturiero, anzi forse ne fu uno stimolo, perché
non potendo fare leva sul costo del lavoro (salari, diritti ecc), le aziende
erano in qualche modo obbligate a investire in idee, cioè in innovazione e
nuove tecnologie per competere sul mercato. Ma il vento, alla fine degli anni
Settanta, stava già cambiando. La globalizzazione muoveva i primi passi, lungo
una strada già tracciata, che nel volgere di trent’anni avrebbe portato alla
deindustrializzazione forzata (non solo in Italia, dunque) e alla
finanziarizzazione spinta dell’economia, con i risultati che oggi abbiamo sotto
gli occhi. E così, e siamo appunto negli anni Ottanta, il trend comincia ad
invertirsi: sono gli anni della Milano da bere, dell’assalto alla scala mobile,
delle prime clamorose sconfitte del movimento sindacale. L’Italia comincia ad
arrancare su tutti i fronti: in soli dieci anni il costo del lavoro è sceso di
circa sette punti, ma la produttività non aumenta, anzi praticamente si
dimezza. Benché ci sia un arretramento generale, da primi della classifica,
finiamo penultimi, con il Regno Unito che, al contrario, raddoppia la propria produttività
(4,4%). Dieci anni dopo ancora (anni Novanta), quando smantellare i diritti del
lavoro è diventato la parola d'ordine, il declino dell’Italia è certificato: la
produttività raggiunge un modesto 2,6% di incremento medio annuo (solo la
Spagna fa peggio di noi), con gli Usa che balzano al primo posto con il 4,3%.
Anche in questo caso, non aiuta il calo del costo del lavoro, ora al 4,4%,
pressoché in linea con quello degli altri paesi: negli Usa è al 3,9; nel Regno
Unito al 4,3; in Germania al 4,7; in Francia al 3,7. Anche il Clup (costo del
lavoro per unità di prodotto, cioè l’indice che valuta quanto costa produrre un
bene o un servizio) è nella media. Ma è con l’arrivo dell’euro, che il declino
italiano si trasforma in tracollo. L’impossibilità di svalutare, come avveniva
ai tempi della lira, accanto ai sempre più scarsi investimenti in innovazione e
ricerca, portano la produttività dell’Italia ad un misero 0,4%. Semplicemente
(si fa per dire) siamo ultimi; nessuno fa peggio di noi. Oltretutto, proprio
l’introduzione dell’euro in un paese che aveva una moneta debole, è la causa
principale del balzo del Clup, che, negli anni Duemila, porta il costo del
lavoro in Italia al 2,7%, contro lo 0,2 della Germania, lo 0,6 della Francia e
lo 0,5 dell’Olanda, ma dimezzando contemporaneamente i salari (e solo
apparantemente è un paradosso). La conclusione del Cnel è semplice quanto
allarmante: «La perdita di competitività dell’Italia rispetto alle altre
economie dell’area euro è stata significativa, oltre il 2% all’anno. Un tale
divario, cumulato in dieci anni, comporta una perdita complessiva di oltre il
20%, difficilmente sostenibile nel medio termine». Il rischio, avverte il Cnel,
è che «senza una svolta dal versante della produttività, potrebbero prevalere pressioni
deflazionistiche sui salari e sui redditi interni, assecondate da politiche
fiscali di segno restrittivo» (ciò che sta già accadendo, nonostante i salari
italiani siano ormai tra i più bassi e il loro potere di acquisto in vistosa
caduta), mentre le imprese potrebbero essere tentate di riorganizzarsi
«adattandosi ai nuovi livelli produttivi permanentemente più bassi (causa
recessione, ndr), attraverso ristrutturazioni della produzione o anche vere e
propri chiusure di stabilimenti» (quello che, par di capire, si accinge a fare
la Fiat di Marchionne). La situazione, dunque, rischia di avvitarsi in una
spirale che finirà, prevede il dossier, con «un allargamento del gap di
produttività fra i paesi della periferia europea e le economie dell’area tedesca»,
dato che «la crisi limita le opportunità per nuovi investimenti, un passaggio
necessario per qualsiasi recupero di efficienza» (qualcuno lo dica a Monti).
Insomma, per il Cnel «occorre che la politica sappia reagire» per evitare che
il peso ricada soprattutto sui lavoratori e sui loro salari, ciò che causerebbe
«lunghi periodi di stagnazione dell’attività economica». Uno scenario che «come
l’esperienza greca ha mostrato, ha implicazioni di carattere sociale
allarmanti». Lo dice il Cnel.