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domenica 30 settembre 2012

Alcoa, la Glencore esce dalla trattativa. Ferrero: "Passera commissari l'azienda e il governo ne garantisca l'attività produttiva"

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Per quanto riguarda la situazoone odierna dell'Alcoa la Glencore sembra essere uscita ufficialmente dalla trattativa in merito all'acquisizione dello stabilimento di Portovesme. La comunicazione questa mattina è arrivata al Ministero della Sviluppo Economico nella tarda serata di ieri. Agli operai sarà comunicato in via ufficiale lunedì prossimo nel corso di un'assemblea.
intanto l'Azienda non ha perso tempo e ha pensato di trasmettere ai sindacati il programma di abbandono delle attività che sono state affidate alle imprese d'appalto.
"La notizia del venire meno dell'acquirente per Alcoa chiede al governo un salto di qualità - dichiara Paolo Ferrero, Segretario di rifondazione Comunista - Passera, che è in vena di commissariamenti - aggiunge - commissari l'Alcoa e il governo ne garantisca l'attività produttiva. Il governo deve intervenire senza aspettare che l'apparato industriale italiano vada tutto a rotoli".
Saranno 67 i lavoratori interinali che da lunedì andranno via e 20 degli appalti. Altri 180 vedranno il loro licenziamento entro ottobre.
I 500 diretti resteranno fino al 31 dicembre.
Martedì prossimo in programma incontri con l'azienda, nella sede della Confindustria, e, nel pomeriggio, con l'Assessore regionale al Lavoro. L'obiettivo resta cercare una soluzione per estendere la cassa integrazione anche ai lavoratori delle imprese d'appalto.
Per giovedì è in programma una manifestazione di cui non sono ancora noti i dettagli. 

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Ilva, i cittadini si appellano alla Corte internazionale di Giustizia

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La torre di caricamento dell'altoforno 5 e ol camino E312 all’Ilva di Taranto ancora ospitano i lavoratori che protestano contro la ventilata chiusura del siderurgico. Gli scioperi di giovedi' e venerdi' di Fim e Uilm a sostegno dei Riva e del presidente Bruno Ferrante, impegnati ad ottenere a tutti i costi l’Aia, hanno allargato decisamente lo strappo tra Fim Cisl e Uilm Uil da un lato e Fiom Cgil dall'altro. La Fiom, che gia' non aveva condiviso le precedenti proteste delle altre due sigle sindacali, si e' nettamente dissociata anche dai blocchi stradali e dalle astensioni dal lavoro di questa settimana perche' ha ritenuto queste mobilitazioni schierate piu' contro la Magistratura, che ha disposto il sequestro dell'area a caldo dell'Ilva, che contro l'azienda che non propone ancora gli investimenti necessari per risanare il siderurgico. Insomma, il terreno sembra tutto a favore del Governo che tra un paio di settimana dovrebbe concedere l’autorizzazione. Autorizzazione su cui, va detto, pende l’incognita dei dati epidemiologici. Ilva ed esecutivo hanno già da tempo contestato i numeri circolati in questi giorni. Alcuni di questi, addirittura, provengono dall’Istituto superiore di Sanità.
La Fiom Cgil, tuttavia, sta facendo di tutto per tentare di tenere unito il fronte dei lavoratori. Gia' dalla prossima settimana potrebbe fare le assemblee con i lavoratori Ilva, "anche da soli - ripete Donato Stefanelli, segretario Fiom di Taranto -. Sono oltre 20 giorni che abbiamo proposto alle altre due organizzazioni di confrontarci in assemblea con i lavoratori perche' e' con loro che dobbiamo costruire la nostra proposta. Una proposta che chieda all'Ilva di investire perche' questo e' il punto fondamentale. Non servono spaccature e forzature in una fase cosi' difficile".
Intanto, con circa 4.000 le firme, le Donne per Taranto chiedono che nel procedimento di nuova Autorizzazione Integrata Ambientale per lo stabilimento siderurgico Ilva di Taranto vengano inseriti i dati dello studio epidemiologico 'Sentieri'. Le 4000 firme saranno inviate al Presidente della Repubblica e al ministro dell'Ambiente e al ministro della Salute entro mercoledi'. Anche il Comitato 'Taranto Futura', è sempre più deciso a non mollare la presa. Cosi' come annunciato nel luglio scorso, ha presentato una denuncia al procuratore del Tribunale penale internazionale dell'Aja per chiedere l'apertura di un'inchiesta nei confronti della classe dirigente tarantina, regionale e nazionale, in concorso con i vertici dell'Ilva, per la violazione degli articoli 5, 6 e 7 dello statuto della Corte penale internazionale per i reati di genocidio e crimini contro l'umanita' in relazione all'inquinamento prodotto dallo stabilimento siderurgico e ai mancati controlli da parte delle istituzioni.


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L’austerità è una droga

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Madrid tornano gli indignados e Rajoy sprofonda nei sondaggi, ma il suo governo prepara un ulteriore taglio da circa 40 miliardi della spesa, dopo la stangata da 65 miliardi decisa con la Finanziaria 2012 solo 5 mesi fa. Ad Atene si rivedono le scene da guerra civile, con scontri e bombe molotov davanti al Parlamento, mentre il governo studia ulteriori misure di taglio alla spesa pubblica, come la soppressione della 13esima per gli statali. Insomma, la storia si ripete, da una parte i governi e l’Europa con le loro politiche di austerità e tagli al welfare, dall’altra i manifestanti, sempre più esasperati, a contestare politiche e classi dirigenti.
Tra queste due parti contrapposte non ha dubbi dove schierarsi il premio Nobel all’economia Paul Krugman, secondo cui i manifestanti in Grecia e in Spagna “hanno ragione”, “ulteriori misure di austerity non servono a nessun proposito. Chi è realmente irrazionale sono i presunti seri politici che chiedono ulteriori sacrifici”.


In Europa, afferma il Nobel, si “infliggono dolori senza una buona ragione”. “Se la Germania vuole realmente salvare l’euro, dovrebbe lasciare che la Bce facesse quello che è necessario per salvare i paesi e dovrebbe lasciarlo fare senza infliggere ulteriori dolori senza senso”.

Interessante la teoria che l’economista sviluppa sul suo blog in un post dal titolo “Debt Is a Drug (And So Is Austerity)”. Secondo Krugman, le politiche di austerity sono come l’eroina, una droga che ritorna ad intervalli periodici perché la nuova generazione ha dimenticato i danni che essa ha prodotto alla precedente. Così, spiega il premio Nobel, come l’eroina sta tornando di moda tra i giovani, così oggi tra finanzieri e politici è tornata in auge la “Treasury view”, che in italiano vuol dire “punto di vista del Tesoro”.

Come spiega bene in un post il Keynesblog, la “Treasury view” parte dall’assunto che il tasso di interesse (quello che le banche applicano ai prestiti alle imprese) sia il punto di equilibrio tra gli investimenti e i risparmi poiché, secondo la teoria neoclassica, il tasso di interesse altro non è che un “prezzo” al quale la domanda (prestiti) e l’offerta (risparmi) si equilibrano. Secondo questa teoria, una maggiore spesa pubblica andrebbe ad intaccare questo equilibrio naturale, provocando un aumento del tassi di interesse e quindi una minore spesa privata (in investimenti e consumi). Per usare il linguaggio neoclassico, la spesa pubblica “spiazza” quella privata e fa aumentare il tasso di interesse.

Ma, secondo Krugman (come secondo Keynes) questa teoria non sta in piedi e l’esperienza della crisi del ‘29 dovrebbe aver insegnato ai politici e agli economisti che politiche monetarie restrittive e austerità non sono una buona cura in tempi di crisi.



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venerdì 28 settembre 2012

Ilva, la Fiom pensa alla salute e non fa il gioco del padrone

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«Uno sciopero di cui non sono chiare le ragioni rischia di generare divisioni tra i lavoratori e contrapposizioni con la magistratura» Lo strappo tra la Fiom e Fim Cisl-Uilm Uil ha una data e un luogo precisi: giovedì 2 agosto, piazza della Vittoria, Taranto. Quel giorno i sindacati metalmeccanici persero la piazza durante il comizio dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil per l'irruzione pacifica del comitato «Cittadini e operai liberei e pensanti».

Da quel giorno nulla è stato più come prima. La Fiom imputa alla Fim e alla Uilm di avere un atteggiamento poco chiaro, soprattutto nei confronti della magistratura, preferendo la strada delle assemblee dei lavoratori all'interno del siderurgico per mettere pressione al Gruppo Riva invitandolo ad effettuare investimenti chiari e ingenti rispetto a quelli sin qui presentati dall'azienda e puntualmente bocciati dai custodi giudiziari, dalla Procura e dal gip Todisco. Di contro Fim-Cisl e Uilm-Uil proseguono sulla strada degli scioperi e dei blocchi, rimproverando alla Fiom Cgil di aver tradito l'alleanza sancita all'indomani del sequestro preventivo degli impianti dell'Ilva dello scorso 26 agosto.

Anche ieri la Fiom ha chiesto alle sigle «rivali», di «sospendere lo sciopero proclamato e di farlo precedere immediatamente dalle assemblee con tutte le lavoratrici e i lavoratori». «Avanziamo questa proposta - si legge in una nota della Fiom Taranto - perché uno sciopero, di cui non sono chiare le ragioni e con dichiarazioni contraddittorie tra le organizzazioni che lo hanno dichiarato, rischia di ingenerare confusione, pericolose divisioni tra i lavoratori e inutili contrapposizioni con la magistratura. Dobbiamo decidere insieme e senza divisioni tra lavoratori i contenuti della piattaforma per aprire la vertenza in difesa del lavoro, della salute dentro e fuori lo stabilimento e per la continuità produttiva dell'Ilva. Vertenza che deve unire i lavoratori, la città e le istituzioni nel pieno rispetto della magistratura». In ogni caso la Fiom terrà le assemblee retribuite per garantire a tutte le lavoratrici e i lavoratori il diritto di decidere insieme del proprio futuro. Inoltre oggi a Taranto si svolgerà una assemblea nazionale dei delegati e delle delegate della siderurgia dal titolo «Ilva. Un nuovo modello di sviluppo ecocompatibile», presso il salone della Provincia all'interno del Palazzo del Governo. I lavori, aperti anche alla stampa, si svolgeranno tra le ore 10 e le 15,30 e chiuderà gli interventi il segretario generale della Fiom, Maurizio Landini.

La replica alle posizioni della Fiom non si è fatta di attendere. «La Fiom ha perso la testa: ci chiede di fare un assemblea con i lavoratori di cui ha boicottato l'organizzazione fino a questa mattina (ieri per chi legge, ndr) e nonostante i nostri ripetuti inviti«. Ad affermarlo, il segretario nazionale Fim Cisl, Marco Bentivogli, che sferra un attacco durissimo nei confronti dei metalmeccanici della Cgil. «La Fiom - ha proseguito Benticogli - è l'ultima organizzazione in Ilva e negli ultimi giorni perde iscritti e prende fischi ovunque. Negli anni '70 i padroni chiamavano gli squadristi davanti ai cancelli per impedire la partecipazione agli scioperi. La Fiom non ha voluto organizzare nessuna assemblea, né con noi né da sola. Gli iscritti alla Fiom stanno scioperando con noi. La Fiom invita, con pessimi risultati, i lavoratori a non scioperare, davanti alla portineria 'A' e ora ci chiede ufficialmente di sospendere gli scioperi. Deve essere l'effetto dell'arruolamento di Romiti e Della Valle nella vicenda Fiat».

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Neanche un euro su Mirafiori

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L’ad del Lingotto abbassa i toni ma non cambia la sostanza. Fino al 2014 in Italia non si produrrà nulla di nuovo. E aggiunge: senza Chrysler passeremmo le pene dell’inferno. Da Parigi Sergio Marchionne conferma che per l’Italia non sono previsti investimenti. Faccia a faccia col patron di Mazda, alla ricerca del partner «globale»
Tagliati barba e 20 miliardi di investimenti, Sergio Marchionne si presenta più leggero al Salone dell’auto di Parigi. Basta veleni con Diego Della Valle incrociando scarpe e parafanghi, basta insulti a imprecisati giornalisti sul libro paga della Volkswagen che gli vorrebbero far vendere l’Alfa Romeo, basta accuse perfino alla Fiom, che «non c’entra nulla» con la decisione di cancellare il suo piano Fabbrica Italia. Lasciato cadere per colpa dei mercati a picco e anche un po’ per la troppa insistenza della Consob («ho ricevuto 19 lettere, la ventesima non l’avrei più letta») nel voler sapere che cosa Fiat avrebbe davvero prodotto nelle fabbriche italiane. «Fabbrica Italia era morta strutturalmente un anno fa», amen.
L’a.d. di Fiat-Chrysler ribadisce che non prevede di investire più un euro in Italia almeno fino al 2014 – «al momento idoneo» concordato sulla carta con il governo Monti, ma non con il mondo del lavoro né con quello dei mercati – e che non chiederà aiuti pubblici non solo al governo italiano ma (questa è una novità) nemmeno a quello della Ue, cui si era rivolto perché desse una mano all’industria dell’auto per ristrutturarsi sul modello di quanto fatto con la siderurgia negli anni ’80. Una ritirata strategica, dopo aver sentito a margine del Salone il suo omologo del gruppo Volkswagen, Martin Winterkorn: «Ci sono stati aiuti da parte dei governi per mantenere le fabbriche aperte, dunque non capisco perché dovremmo chiedere aiuti per tagliare posti di lavoro. Non dovremmo neppure discutere se chiedere soldi a Bruxelles per chiudere fabbriche».
Sugli investimenti mancati, Marchionne è ancora più esplicito, quando gli viene domandato del congelamento del miliardo promesso a Mirafiori per costruire due Suv: «Non ho ancora messo il miliardo. Stiamo valutando la situazione dei modelli. Voglio essere libero di decidere il portafoglio prodotti». E fa un passo avanti, anzi due indietro, quando chiarisce cosa intende per «ripensamento del modello di business» di Fiat in Italia, dove le fabbriche per non chiudere dovrebbero essere dedicate all’export di auto Fiat, Chrysler e Jeep verso il Nordamerica, nonostante il cambio con il dollaro sia sconveniente (per noi, ha sottolineato). Anche questa è solo un’intenzione, non un nuovo impegno tipo Fabbrica America: «nei prossimi 18/24 mesi» si vedrà se i siti statunitensi andranno a saturazione e dunque se sarà necessario importare dall’Italia.
Insomma, fino al 2014 nelle fabbriche italiane non si produrrà nulla (o cosa?), né per i mercati europei in crisi, né per quello nordamericano. E se fra due anni andasse in crisi anche quello, beh la colpa non sarebbe certo sua. Nel frattempo, spiega Marchionne, sarà bene che il governo Monti si dia da fare per snellire procedure e trovare incentivi fiscali per l’export. Lui però non chiede soldi, insiste: «Ho chiesto a tutti soltanto pazienza». Virtù che gli operai degli stabilimenti italiani faticheranno sempre di più a trovare, condannati alla cassa integrazione per almeno altri due anni. O, se va bene, a quella in deroga che la Fiat non ha chiesto, perché oggi non l’avrebbe ottenuta. Forse domani, forse con un Monti-bis che il manager sogna e per cui prega («Mario diventerà un nome santo», riferendosi al premier e anche a Draghi).
Benché stuzzicato da un collega sulle «imboscate della Fiom», Marchionne si limita a rispondere che «sarebbe una bugia se dicessi che non ci condiziona nelle scelte», ma aspetta senza scaldarsi l’appello della sentenza di un tribunale di Roma (in ottobre), che accusa la Fiat di «discriminazione» per non avere assunto a Pomigliano operai iscritti al sindacato dei metalmeccanici della Cgil. Del resto, anche lui ha deciso di comportarsi come la Fiom, facendo causa in America al Veba, il fondo del sindacato dei metalmeccanici Uaw, per disaccordo sul valore della cessione di una quota del 3,3% di Chrysler in mano ai lavoratori.
Problema non da poco per Marchionne, perché il Veba ha il restante 40% del marchio e potrebbe provare ad alzare ulteriormente il prezzo nella prossima trattativa. Già che c’è, aggiunge che comunque oggi la Fiat senza la Chrysler passerebbe «le pene dell’inferno». Per il resto, conferma di cercare un terzo partner, asiatico sarebbe l’ideale: ieri pomeriggio era previsto un riservato faccia a faccia con il presidente della Mazda Takashi Yamanouchi, per provare ad andare oltre l’intesa sulla produzione comune di spider Mazda e Alfa Romeo dal 2015.
Tornando a cose italiane, il manager chiude pepato verso la Confindustria da cui ha portato fuori la Fiat, «non ci manca quel rito», «abbiamo obiettivi fondamentalmente diversi». Ma qui potrebbe avere forse anche ragione; tanto più che nemmeno al presidente Giorgio Squinzi sembra proprio mancare questa Fiat.

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giovedì 27 settembre 2012

Operai dell'Ilva fino a 80 metri di altezza. La protesta non si ferma: tensione

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Gli operai dell'Ilva sono stati l'intera notte sulla torretta di smistamento dell'altoforno 5. Si sono alternati a gruppi di cinque senza permettere l'interruzione produttiva dell'impianto. Hanno infatti deciso di mantenere il presidio a 60 metri di altezza in uno dei punti in cui transitano i nastri di carica e che è accessibile agli addetti all'altoforno stesso. Ma non  è tutto. Questa mattina altri 10 dieci invece sono saliti a circa 80 metri di altezza, vale a dire su di una torre del camino E312.
Quella cominciata ieri sera è una protesta simbolica sostenuta dai sindacati. Dall'inizio della vicenda giudiziaria dell'Ilva i lavoratori hanno effettuato sempre blocchi stradali e sit-in all'esterno del siderurgico, ma nessuno di loro si era mai spinto su di un altoforno fino a 60 metri di altezza.
Perché hanno scelto l'altoforno numero 5? E' il più grande d'Europa e con maggiore capacità di produzione nello stabilimento. bloccarlo, peraltro, causerebbe un vero disastro a tutto il siderurgico.
Insieme a cokerie e acciaieria 1 proprio idi sequestrare e bloccare il produzione delle aree produttive dell'Ilva - custodi giudiziali - secondo il piano consegnato all'Ilva che presentava l'ordine del Procuratore della Repubblica - hanno tentato di imporre il blocco degli altoforni 1 e 5 e la dismisisone con rifacimento del 3.
Ma sono "Pronti a tutto" gli operai, come "recita" lo striscione messo in mostra da loro stessi e che ha da subito reso esplicito il clima di tensione.
Lo stesso Bruno Ferrante, Presidente dell'Ilva, non ha potuto evitare di parlare di una comprensibile agitazione mentre si attendono notizie dalle autorità giudiziarie. E' il gip Patrizia Todisco che oggi si pronuncerà in merito all'istanza dell'Ilva dopo aver chiesto per l'azienda stessa "minima capacità produttiva" a fronte d un piano di investimenti immediati da 400 milioni di euro.
Un piano tuttavia, a cui è strettamente collegata l'istanza aziendale, ma è stato bocciato non solo dai custodi ma anche dalla Procura.
I lavoratori dunque, è facile intuirlo, temono fortemente che anche il gip si pronuncerò a loro sfavore

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martedì 25 settembre 2012

manifestazione del 27 ottobre a roma

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lunedì 24 settembre 2012

“Reddito minimo garantito oltre e contro la crisi”

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Dal giugno scorso, e fino al prossimo dicembre, è attiva la campagna per la raccolta di 50 mila firme per una proposta di legge di iniziativa popolare che introduca il reddito minimo garantito in Italia, unico Paese nell’attuale Unione europea, insieme con la Grecia, a non prevedere una qualche forma di garanzia di un reddito di base.
Dal 15 al 21 ottobre si terrà una settimana dedicata a questo tema, per tutti coloro che partecipano o vogliono partecipare alla campagna e alla raccolta firme. Sono previsti concerti, dibattiti, spettacoli teatrali, volantinaggi, reading, presentazioni di libri, seminari, dance hall, cineforum, performance e quant’altro possa essere utile a comunicare, approfondire, rendere visibile il tema del reddito garantito nei mercati rionali, nelle sedi delle associazioni, nelle piazze delle città, librerie, centri sociali, fuori i supermercati, i posti di lavoro, le università, i luoghi di ritrovo. Abbiamo intervistato Sandro Gobetti, coordinatore di Bin Italia (Basic Incom Network).
Finalmente sul reddito minimo c’è qualcosa di concreto
La settimana è all’interno della campagna iniziata a giugno del 2012 con una proposta di iniziativa popolare di legge e che prevede cinquantamila firme entro dicembre. Una iniziativa alla quale hanno aderito tantissime realtà dagli studenti ai precari, lavoratori autonomi e realtà dell’economia solidale. Anche partiti e sedi locali di Prc, Pdci, Sel. Ed inoltre hanno aderito anche tantissime personalità, intellettuali e uomini politici anche del Pd come Sergio Cofferati e Francesca Balzani. C’è anche una significativa presenza di sindaci.
Sul reddito minimo garantito c’è stato da anni un dibattito molto articolato. Ci sono stati dei progressi?
Il dibattito è ricco e pieno di iniziative. Non c’è una univocità ma questa è una ricchezza per noi. Alcuni approcciano ad un reddito per tutti mentre altri puntano al reddito minimo garantito di ispirazione europea e quindi dentro al modello sociale europeo. Questa campagna non entra nel merito del dibattito ma mira alla proposta di legge che prevede una serie di articoli sulla costituzione di un minimo garantito di 600 euro al mese per tutti coloro che sono sotto la soglia degli ottomila euro all’anno. Poi ci sono le misure di reddito indiretto, dalla sanità alla casa ai trasporti.
Quindi andiamo oltre una concezione prettamente lavorista…
La precarietà non è più un concetto lavoratistico ma è entrata nella società. La catena stessa della solidarietà famigliare che prima agiva da ammortizzatore sociale si è spezzata a causa della crisi. Questo deve portaci a qualche riflessione in più sulle modificazioni sociali macro che produce. Partiamo dal concetto di “Denizen”, ovvero un cittadino ormai anche senza cittadinanza. E’ questo quello che la crisi sta producendo. Quindi occorre creare una forma di garanzia di base che però rappresenta un avanzamento sul piano dei diritti. Se un cittadino italiano che si trova in Irlanda ha diritto ad alcune garanzie non accade però il contrario. Ovvero non c’è il principio di reciprocità. L’Italia è un paese di serie B e lo spread dei diritti è ancora più evidente. Il punto qualificante della proposta di legge di iniziativa popolare è la residenza e non una qualche forma di nazionalità.
E’ la solita Europa a metà che piace così tanto ai vari governi italiani, tecnici e non.
Al centro c’è l’autonomia reale degli individui. Non a caso siamo gli ultimi nella classifica europea. La proposta di legge che fa parte di questa campagna prevede anche alcune cose altrettanto interessanti come un salario orario minimo. Questo è in relazione naturalmente con la condizione dei precari. Questa legge risponde in qualche modo anche alla riforma di Fornero perché prevede un susssidio di disoccupazione per i precari. Terza questione è che questa proposta di legge riformula alcune competenze nel definire il carattere nazionale di applicazione della legge invitando le Regioni italiane ad intervenire o aumentando l’importo dell’assegno per casi particolari oppure in settori come la scuola e l a sanità. Un modello “welfaristico” nuovo in cui attorno al reddito garantito si sviluppano altri diritti sociali.
Il percorso è lungo…
C’è da lavorare molto perché in Italia siamo davvero indietro. Le Regioni italiane hanno cercato di individuare delle formule, ma il dato rimane quello di un paese indietro di anni. Chi perde lavoro è sostanzialmente abbandonato a se stesso. Da qui a qualche anno avremo non la semplice povertà ma la povertà estrema e l’emarginazione. Il tema deve far parte dell’agenda politica nazionale. I primi richiami della commissione europea sono del ’92. E poi vorrei ricordare che i soggetti ricattati sono quelli che più si allontanano dalle istituzioni. E questo mette in grave crisi l’assetto sociale e il funzionamento della democrazia.
Come siete arrivati a maturare questo passaggio politico della proposta di legge?
Non c’era tempo per elaborare attraverso i social forum. Si è seguito il metodo delle adesioni diffuse. Il risultato è quello di una rete di esperienze molto diffusa nei territori. Tante persone parlano con le altre persone. Si sta determinando una forte discussione nel paese che esce un po dai canoni classici dei movimenti. Detto questo, è chiaro che lo spazio è aperto a tutti. E quindi tutte le organizzazioni politiche e sindacali possono e debbono misurarsi.
Come si lega questa raccolta delle firme con la campagna sul referendum sull’Art. 18?
La campagna sull’articolo 18 è stata lanciata da una serie di forze ben chiare come dimostra la foto della consegna delle firme. Noi crediamo che i diritti del lavoro camminano insieme ai diritti sociali. La battaglia è comune anche se le due campagne hanno un oggetto diverso: referendum e proposta di legge. Camminano parallele ma colpiscono però lo stesso obiettivo.

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domenica 23 settembre 2012

Fiat chiude ma Fabbrica Italia continuerà ad ammazzare i diritti

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Cinque ore di colloquio per non portare a casa niente. L’incontro di ieri tra il Governo e la coppia Sergio Marchionne e Lapo Elkann, vera e propria triste parodia di “Attenti a quei due”, è stato un autentico disastro. Un disastro per il Bel Paese, ma soprattutto per i lavoratori della Fiat. Bene che vada si andrà avanti a quote crescenti di cassa integrazione. In più, rottamazione di qualche linea di produzione e aiuti sui mercati stranieri. Nessuno che abbia chiesto il conto a Marchionne, ovviamente. Di investimenti, poi, non c’è nemmeno l’ombra. Per Melfi e Pomigliano ci si attacca addirittura ai fondi europei. Così siamo rassegnati al declino. Solo che prima delle elezioni non si può dire. “Bisogna lavorare per l’export” ripete stancamente l’Ad di Fiat, rimettendo in campo un vecchio leit motiv il cui obiettivo è in realtà il costo del lavoro. Il Governo da parte sua non ha il becco di un quattrino. E non lo nasconde. Si chiude quindi? La prospettiva è quella del congelamento, per ora. Si tira a campare. A pagare saranno sempre i soliti, che non solo si ritroveranno senza una busta paga degna di questo nome e con la prospettiva del licenziamento, ma dovranno sopportare un regime normativo da “stato di polizia”. E intanto si pensa a come spolpare il cadavere. Non è proprio tutto da buttar via in fondo. Intanto, nessuno ha detto che Fabbrica Italia, ovvero tutto l’apparato di regole contrattuali e “relazioni sindacali” viene messo da parte. Anzi, a quanto sembra Mario Monti è pronto a farne la base per il cosiddetto “Patto per la produttività”. Alcuni passaggi raggiunti nel nuovo accordo dei chimici, per esempio, sono molto illuminanti: congelamento degli aumenti retributivi e part time imposto ai senior vicini alla pensione in cambio di una estensione della precarietà per chi verrà assunto; nonché, deroghe a non finire al contratto nazionale. La Cgil per il momento ha sospeso il giudizio e il segretario della Filctem-Cgil si è addirittura dimesso dopo la firma. Insomma, siamo all’applicazione dell’accordo del 28 giugno, articolo 8 (quello dettato dalla Fiat al ministro Sacconi) compreso.
Monti si frega le mani, ovviamente. Non gli pare vero poter “addottare” in pieno il modello Fabbrica Italia senza dover portare in giro l’odiatissima faccia di Sergio Marchionne. Ora si apre una partita interessante che vede al centro ancora una volta il sindacato, e la Cgil in particolare, da una parte; e dall’altra alcune grosse crepe che si stanno aprendo nel fronte imprenditoriale. Per il momento siamo alla rissa generale (come scrive Ettore Livini su Repubblica). Monti l’ha capito ed è pronto a fare il punto di riferimento per la ricerca di un nuovo equilibrio. La Cgil dovrà invece ancora fare i conti con un fronte unitario letteralmente a pezzi. A lei decidere se il quadro si può ricomporre inseguendo la Cisl sul suo terreno oppure se occorre cambiare passo. In fin dei conti l’occasione c’è. Nei lunghi mesi che ci separano dalle elezioni si potrebbero tornare ad agitare elementi di contenuto che farebbero impallidire il nulla pneumatico delle segreterie dei partiti. Quegli elementi concreti che riguardano la condizione materiale delle persone che nessuno ha nai voluto prendere seriamente in considerazione.

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sabato 22 settembre 2012

Fiat, ci sei costata cara. E ora te ne vai

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E adesso anche i fan più irriducibili sono costretti a ricredersi. A malincuore, magari, ma si ricredono. Dei venti miliardi che Marchionne aveva promesso di investire nel nostro paese non si è vista neppure l'ombra. Chi aveva preso per oro colato il piano Fabbrica Italia, nei giorni scorsi ha ricevuto una doccia gelata. Il supermanager di casa Fiat ha spiegato senza mezzi termini che sarebbe un azzardo fare investimenti nella situazione attuale. Che il mercato è peggiorato rispetto alle previsioni di un anno fa. Che lanciare nuovi modelli non servirebbe a risollevare le sorti del marchio automobilistico in Italia e in Europa. Per ora non è in ballo la chiusura degli stabilimenti italiani.
Marchionne assicura di non avere in mente interventi traumatici. Ma è una promessa. Come le altre. E intanto bussa alla porta del governo. Chiede ammortizzatori sociali. Il prossimo anno andrà in scadenza la cassa integrazione straordinaria che, al momento, è applicata in dosi massicce a Mirafiori, Pomigliano e all'ex Bertone di Grugliasco. Per non far scattare i licenziamenti servirà la cassa in deroga. Di questo, presumibilmente, si parlerà nell'incontro di oggi tra Marchionne e il premier Monti.
Al manager è stato concesso tutto, ma proprio tutto, in cambio della promessa di rilancio della Fiat sul mercato italiano ed europeo. Marchionne ha immolato tutto quello che si poteva immolare sull'altare dei dividendi degli azionisti. Ha fatto terra bruciata delle relazioni industriali. Ha stracciato contratti, ha posto ultimatum, ha azzerato diritti. Scelte dolorose ma necessarie - ci dicevano gli ammiratori di Sergio - perché in Italia la produttività è bassa e i nostri operai lavorano meno dei loro colleghi polacchi. Anche se oggi gli stabilimenti vanno avanti a ranghi ridotti e a mezzo servizio perché la Fiat perde quote di mercato. Quando Marchionne decise di abbandonare unilateralmente il contratto nazionale dei metalmeccanici e uscire da Confindustria, in tanti lo acclamarono come un manager innovativo e coraggioso. Giornali come il “Foglio" videro in lui l'artefice di una rivoluzione del capitalismo italiano, un eroe “americano” che finalmente avrebbe spazzato via particolarismi e interessi di bottega. E quando a Pomigliano e Mirafiori i lavoratori vennero chiamati sotto ricatto a pronunciarsi sull'accordo separato tra l'azienda, Cisl e Uil, non una voce si levò contro. A eccezione di quella della Fiom. I vertici del Lingotto minacciarono chiaramente che, nel caso i lavoratori avessero respinto l'accordo, la Fiat avrebbe abbandonato l'Italia per investire altrove. Unico risultato ammesso, la vittoria del sì. In quei giorni la pressione sui lavoratori raggiunse livelli inconcepibili. «Se fossi un lavoratore della Fiat voterei sì al referendum sull'accordo a Mirafiori», dichiarò Piero Fassino, candidato a futuro sindaco di Torino. I sì finirono per vincere, anche se di poco. Ma il sacrificio si è rivelato inutile. La Fiat del dottor Marchionne aveva già deciso di abbandonare il proprio core business in Italia. L'obiettivo era un altro, politico: smantellare il sistema delle relazioni industriali.
Niente investimenti, quindi. Dopo oltre cento anni di storia patria la Fiat non ha piani industriali per il paese in cui è nata e dal quale ha ricevuto nel corso del tempo massicci aiuti pubblici (leggi: soldi dei contribuenti). L'orizzonte, oggi, è altrove. Oltreoceano. «La Fiat manca di progetti e la colpa principale è di Marchionne. La strategia la decide lui e non gli azionisti. Lui voleva andare in America e c'è riuscito». Parole pesanti di Cesare Romiti che ai vertici del Lingotto ha trascorso vent'anni nel ruolo di manager. «Credo che in questi anni gli azionisti abbiano dato abbastanza soldi all'amministratore delegato. E bisognerebbe anche calcolare il valore delle tecnologie trasferite da Fiat a Chrysler. Tecnologie e saperi accumulati in cento anni di storia della Fiat». Romiti rivendica la strategia industriale del Lingotto di una volta, quando oltre che nel core business dell'auto, il gruppo investiva anche in treni e telecomunicazioni. «La Fiat è stata grande fino agli anni '90. Oggi no». In Italia, la grande impresa non esiste più. La crisi e l'andamento del mercato c'entrano poco con i mancati investimenti nel nostro paese, tanto quanto i turni o la durata delle pause dei lavoratori di Pomigliano e Mirafiori. L'Italia non interessa più perché questa è la strategia di Marchionne. Una scelta, dunque. «Quando un'impresa automobilistica per due anni sospende la progettazione perché c'è crisi di vendite - affonda Romiti - ha decretato la morte dell'azienda. Si è tagliata fuori. E i sindacati, tranne  la Fiom, con la loro inerzia hanno facilitato quello che è successo».
Se fosse vero quel che va sostenendo in questi giorni Marchionne - che la Fiat non ha progettato nuovi modelli in Europa perché avrebbe perso miliardi, dato il declino epocale dell'auto - non si capirebbe per quale motivo invece le altre case automobilistiche abbiano continuato a sfornare nuovi modelli. Del resto, è poco credibile che Marchionne si sia reso conto solo adesso dell'abnorme capacità produttiva dell'industria automobilistica, ben al di sopra dei limiti di assorbimento del mercato. Il settore dell'auto era saturo anche un anno fa, quando l'amministratore delegato della Fiat ostentava con il Piano Italia l'obiettivo del raddoppio della produzione. Eppure, nonostante tutto, malgrado la crisi da sovrapproduzione, come mai la Fiat, a differenza dei marchi concorrenti, è quella messa peggio sul mercato europeo? Che sia un semplice effetto ottico, dovuto al riposizionamento del Lingotto su una scala globale. Macché, anche questa è una leggenda da sfatare. «Ci andrei piano con i miti globali», ha scritto Massimo Mucchetti sul “Corriere" di mercoledì. «Globali sono la Toyota, la Volkswagen, la Ford, la Gm, la Mercedes, la Bmw e la Renault-Nissan. Vista in prospettiva, la Fiat non appare molto più globale di com'è stata altre volte in passato. Ci fu un'epoca in cui la Fiat possedeva la Seat in Spagna (ceduta a Volkswagen), la Simca in Francia (finita alla Chrysler), la Zastava in Jugoslavia. La Fiat aveva già la grande unità produttiva polacca. A Belo Horizonte ha aperto negli anni Settanta […]. In Unione Sovietica, Agnelli e Valletta erano andati ancor prima. Non aveva gli Usa, la Fiat. E' vero. Ma di questo passo si sta giocando l'Europa».
E quanto all'Italia - aggiungiamo - nessuna prospettiva chiara. Per quanto in questi giorni Marchionne escluda l'ipotesi di abbandonare la baracca, non è dato sapere su quali stabilimenti farà affidamento in futuro, con quanti occupati e in vista di quale strategia industriale. «Mi impegno, ma non posso farlo da solo. Ci vuole un impegno dell'Italia». Che, suppergiù, suona come un batter cassa all'indirizzo del governo. Che altro non è, poi, che l'ennesima riedizione della storia passata. Tutti i principali investimenti della Fiat sono stati sempre finanziati dagli aiuti di Stato e dai soldi dei contribuenti. Ricambiati malamente. Un vecchio motivo nella storia del capitalismo italiano che è cresciuto sul divario tra la grande e la media impresa: quest'ultima ha sempre rimproverato alla prima di aver goduto di generose elargizioni di denaro pubblico. Questa rivalità di interessi all'interno della borghesia nazionale è tutt'altro che sopita ancora oggi. Il patron della Tod's, Diego della Valle, ha attaccato nei giorni scorsi Sergio Marchionne. «Sul piano per l'Italia oggi dovrebbe dire abbiamo fatto degli errori, abbiamo presentato un piano che non va bene, oggi ci risiediamo ad un tavolo, ci presentiamo al governo e al paese con un piano diverso, ma siamo qua, e rassicuriamo le persone che lavorano sul comportamento che terremo. Quello che si percepisce invece è che dopo averla sparata grossa se ne stanno andando alla chetichella». La famiglia Agnelli «non è una famiglia normale», ha «degli obblighi» verso il paese e i lavoratori da cui «ha avuto un aiuto grandissimo». Per tutto quello che «si è fatta dare» la Fiat potrebbe essere considerata «una azienda pubblica». «La famiglia Agnelli dovrebbe mettere le mani in tasca, evitare di farsi dare dei dividendi come fanno tutti gli imprenditori seri quando le loro aziende hanno dei problemi. E investire quello che serve nell'azienda».
Ma a quanto ammonta il debito morale - pardon, materiale - che la Fiat ha contratto nei confronti della collettività? Checché ne dicesse Luca Cordero di Montezemolo un paio d'anni fa, quando era ancora presidente del gruppo, («da quando sono alla Fiat non abbiamo ricevuto un euro dallo Stato»), la storia del Lingotto gronda di aiuti pubblici. Sotto ogni forma: sussidi, incentivi alla rottamazione, finanziamenti, sostegni indiretti. Per fare un esempio, solo nel 2009 gli ecoincentivi hanno portato un beneficio di 600 milioni di euro nelle casse della Fiat. Dal 2004 al 2010 - il periodo in cui Montezemolo ha ricoperto la carica di presidente - l'azienda ha beneficiato di altri 600 milioni di agevolazioni pubbliche per investimenti e attività di ricerca. Per il decennio tra il 1999 e il 2009 la stessa Commissione europea avviò sei procedure di indagine riguardo ad alcuni aiuti dello Stato italiano a vantaggio della Fiat per una somma totale di 120 milioni di euro, per sospetta infrazione delle norme della disciplina comunitaria per l'industria automobilistica. E se si va a ritroso nel tempo, dalla fine degli anni Settanta a oggi, la Fiat avrebbe incassato dallo Stato la bellezza di quasi un miliardo e mezzo di euro (così scrive sul proprio blog Antonio Di Pietro), ai quali vanno aggiunti gli aiuti sotto forma di cassa integrazione, pari a diverse decine di milioni di euro. Un altro studio messo a punto dalla Cgia di Mestre (il centro studi dell'Associazione artigiani piccole imprese), invece, alza addirittura a 7,6 miliardi gli aiuti statali ricevuti dal Lingotto dal '77 a oggi. Di questi, 6,2 miliardi sarebbero stati impiegati per investimenti. La somma non tiene conto però dei soldi pubblici spesi in ammortizzatori sociali, né degli ultimi contratti approvati dal Cipe nel biennio 2010-2011. «In assoluto – spiega sempre la Cgia di Mestre – l’investimento più importante è stato quello che si è reso necessario per la costruzione degli impianti produttivi di Melfi e Pratola Serra (1990-1995) che sono costati alle casse dello Stato quasi 1,28 mld di euro». Pesano anche le ristrutturazioni alla Sata di Melfi (1997-2000) e all’Iveco di Foggia (2000-2003). Per la prima, lo Stato ha investito 151 milioni di euro, per la seconda 121,7 milioni.
Lo Stato italiano, a pensarci bene, con tutti questi soldi, la Fiat avrebbe potuto comperarsela da tempo.

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Ilva, dopo il "No" dei custodi arriva quello della Procura. Ora la parola al Gip

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Due bocciature in due giorni: dopo il no dei custodi giudiziari degli impianti dell'Ilva sottoposti a sequestro, ieri anche la procura di Taranto ha espresso parere negativo al piano del presidente dell'Ilva, Bruno Ferrante. Al gip Patrizia Todisco dovrà, che nei prossimi giorni dovrà valutare se accogliere la richiesta dell'Ilva sulla continuità produttiva, l’ultima parola. Questa “procedura” non va proprio giù al Governo che per bocca del ministro Corrado Clini fa sapere di non avere alcuna intenzione di mollare il colpo. ''L'autorizzazione all'esercizio degli impianti compete al ministero - ha detto facendo riferimento alla procedura Aia che si concludera' a fine mese - io so qual e' il mio compito e so qual e' quello della magistratura, se ci sara' un conflitto credo che dovra' essere risolto secondo quanto prescritto dalla legge''.
Nella mattinata di ieri il clima in fabbrica si è surriscaldato dopo che si è diffusa la voce, poi smentita, che l'azienda aveva interrotto l'erogazione di acqua ed energia elettrica ad uno degli altiforni sottoposti a sequestro. I caschi gialli si sono riuniti prima in fabbrica, e poi hanno organizzato una manifestazione all'esterno dello stabilimento ma senza blocchi stradali.
La Fiom ha accusato i quadri dell’azienda di aizzare i lavoratori contro la magistratura venendo immediatamente smentita da Ferrante che ha definito le dichiarazioni del segretario provinciale della Fiom, ''irricevibili e infondate''. ''Noi aspettiamo la decisione del gip - ha sottolineato il procuratore Franco Sebastio - se poi una delle parti processuali non dovesse condividere il provvedimento'' il Codice di procedura penale prevede l'impugnazione. ''Il parere che abbiamo trasmesso al gip - ha concluso il capo della procura - e' molto articolato e molto motivato, e' stato valutato a lungo ed e' in linea con la relazione fatta dai custodi giudiziari degli impianti sequestrati''.


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Salari e produttività in Italia: dalle stelle alle stalle

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Il declino industriale italiano raccontato con pochi ma significativi numeri: la prova che l’idea secondo la quale per far crescere un’economia bisogna ridurre i salari, ridurre la presenza dello Stato, eliminare “lacci e lacciuoli” (vedi l’articolo 18 e lo statuto dei lavoratori) e lasciar fare al mercato è una bufala. I numeri sono quelli messi in evidenza nei primi capitoli del dossier sul mercato del lavoro, presentato mercoledì dal Cnel, nei quali l’istituto di ricerca evidenzia la distanza (ormai forse incolmabile) che separa i nostri livelli di produttività da quelli del resto dei paesi europei. Ma non è sempre stato così. C’è stato, infatti, un tempo nel quale l’Italia guidava la classifica della produttività. E, guarda il caso, era lo stesso tempo nel quale i salari erano i più alti, c’era la scala mobile, entrava in vigore un moderno welfare, nasceva lo statuto dei lavoratori, il conflitto tra capitale e lavoro era ai suoi massimi. E’ il decennio degli anni Settanta, quando il cosiddetto output per ora lavorata (cioè, appunto, la produttività del lavoro) nel nostro Paese cresceva con una media del 6,5% annuo, contro il 2,7 di un gigante come gli Stati Uniti, il 2,4 del Regno Unito, il 4 della Germania e il 4,2 della Francia. Contemporaneamente (ed ecco svelato un altro bluff), il costo orario del lavoro era il più alto: 19,2% in Italia; 8,8 negli Usa; 10 in Germania; 18,1 nel Regno Unito ecc. Così come lo era anche il costo per unità di prodotto: quasi il 12% di variazione annua in Italia, contro il 6 degli Usa, il 7,8 del Giappone, il 5,7 della Germania, il 10 della Francia. Ciò evidentemente, non costituiva un impedimento alla crescita e allo sviluppo manufatturiero, anzi forse ne fu uno stimolo, perché non potendo fare leva sul costo del lavoro (salari, diritti ecc), le aziende erano in qualche modo obbligate a investire in idee, cioè in innovazione e nuove tecnologie per competere sul mercato. Ma il vento, alla fine degli anni Settanta, stava già cambiando. La globalizzazione muoveva i primi passi, lungo una strada già tracciata, che nel volgere di trent’anni avrebbe portato alla deindustrializzazione forzata (non solo in Italia, dunque) e alla finanziarizzazione spinta dell’economia, con i risultati che oggi abbiamo sotto gli occhi. E così, e siamo appunto negli anni Ottanta, il trend comincia ad invertirsi: sono gli anni della Milano da bere, dell’assalto alla scala mobile, delle prime clamorose sconfitte del movimento sindacale. L’Italia comincia ad arrancare su tutti i fronti: in soli dieci anni il costo del lavoro è sceso di circa sette punti, ma la produttività non aumenta, anzi praticamente si dimezza. Benché ci sia un arretramento generale, da primi della classifica, finiamo penultimi, con il Regno Unito che, al contrario, raddoppia la propria produttività (4,4%). Dieci anni dopo ancora (anni Novanta), quando smantellare i diritti del lavoro è diventato la parola d'ordine, il declino dell’Italia è certificato: la produttività raggiunge un modesto 2,6% di incremento medio annuo (solo la Spagna fa peggio di noi), con gli Usa che balzano al primo posto con il 4,3%. Anche in questo caso, non aiuta il calo del costo del lavoro, ora al 4,4%, pressoché in linea con quello degli altri paesi: negli Usa è al 3,9; nel Regno Unito al 4,3; in Germania al 4,7; in Francia al 3,7. Anche il Clup (costo del lavoro per unità di prodotto, cioè l’indice che valuta quanto costa produrre un bene o un servizio) è nella media. Ma è con l’arrivo dell’euro, che il declino italiano si trasforma in tracollo. L’impossibilità di svalutare, come avveniva ai tempi della lira, accanto ai sempre più scarsi investimenti in innovazione e ricerca, portano la produttività dell’Italia ad un misero 0,4%. Semplicemente (si fa per dire) siamo ultimi; nessuno fa peggio di noi. Oltretutto, proprio l’introduzione dell’euro in un paese che aveva una moneta debole, è la causa principale del balzo del Clup, che, negli anni Duemila, porta il costo del lavoro in Italia al 2,7%, contro lo 0,2 della Germania, lo 0,6 della Francia e lo 0,5 dell’Olanda, ma dimezzando contemporaneamente i salari (e solo apparantemente è un paradosso). La conclusione del Cnel è semplice quanto allarmante: «La perdita di competitività dell’Italia rispetto alle altre economie dell’area euro è stata significativa, oltre il 2% all’anno. Un tale divario, cumulato in dieci anni, comporta una perdita complessiva di oltre il 20%, difficilmente sostenibile nel medio termine». Il rischio, avverte il Cnel, è che «senza una svolta dal versante della produttività, potrebbero prevalere pressioni deflazionistiche sui salari e sui redditi interni, assecondate da politiche fiscali di segno restrittivo» (ciò che sta già accadendo, nonostante i salari italiani siano ormai tra i più bassi e il loro potere di acquisto in vistosa caduta), mentre le imprese potrebbero essere tentate di riorganizzarsi «adattandosi ai nuovi livelli produttivi permanentemente più bassi (causa recessione, ndr), attraverso ristrutturazioni della produzione o anche vere e propri chiusure di stabilimenti» (quello che, par di capire, si accinge a fare la Fiat di Marchionne). La situazione, dunque, rischia di avvitarsi in una spirale che finirà, prevede il dossier, con «un allargamento del gap di produttività fra i paesi della periferia europea e le economie dell’area tedesca», dato che «la crisi limita le opportunità per nuovi investimenti, un passaggio necessario per qualsiasi recupero di efficienza» (qualcuno lo dica a Monti). Insomma, per il Cnel «occorre che la politica sappia reagire» per evitare che il peso ricada soprattutto sui lavoratori e sui loro salari, ciò che causerebbe «lunghi periodi di stagnazione dell’attività economica». Uno scenario che «come l’esperienza greca ha mostrato, ha implicazioni di carattere sociale allarmanti». Lo dice il Cnel.

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giovedì 20 settembre 2012

Perché sosteniamo i referendum

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I prossimi giorni saranno difficili e non possiamo escludere polemiche in merito alla nostra presenza nel comitato promotore dei due referendum sul lavoro.
La nostra posizione su questi temi è radicata da sempre nella storia rivendicativa della Cgil e nella conquista del diritto del lavoro nel secolo scorso. La nozione di civiltà giuridica - scritta con lo Statuto dei lavoratori nel 1970 e dopo trent'anni di dibattiti - che non si può licenziare un lavoratore senza giusta causa e giustificato motivo, è stata cancellata con la cosiddetta riforma del mercato del lavoro.
Le fratture nel diritto lavorativo determinate dal governo di centrodestra di Berlusconi prima, e dal governo Monti poi, non hanno mai avuto il consenso mio e di Lavoro Società.
Coerentemente, lavoreremo nei prossimi tre mesi per raccogliere firme sui due quesiti, per l'abrogaizone dell'art. 8 della manovra di agosto 2011 e delle modifiche all'art. 18 Statuto dei lavoratori apportate con la controriforma Fornero.

Sull'art. 8 si corre il rischio che sia conosciuto solo dagli addetti ai lavori, serve farlo conoscere e spiegarlo. Questo articolo nasce dall'odio viscerale che l'ex ministro del lavoro Sacconi ha nei confronti di tutto ciò che "odora di sinistra". In più era il tentativo di annullare il contenuto e gli effetti dell'accordo del 28 giugno tra le parti sociali che riconosceva centralità al contratto nazionale.
Con questo articolo si vuole dare forza al contratto aziendale contro quello nazionale, e favorire il sindacato aziendalista contro quello confederale, e riconsegnare ai contratti aziendali materie importantissime, quali la classificazione e l'inquadramento del personale, le mansioni, la disciplina dell'orario di lavoro, i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, il regime della solidarietà negli appalti e al ricorso alla somministrazione di lavoro, e ancora alla modalità di assunzione e la disciplina del rapporto di lavoro. Infine con questo articolo si è manomesso lo Statuto dei Lavoratori consegnando al contratto aziendale la possibilità di definire accordi in merito al recesso dal rapporto di lavoro (licenziamento).
Ci sono abbastanza elementi per "giustificare" la nostra azione referendaria. Sull'art. 18 non abbiamo condiviso la mediazione raggiunta da Casini, Alfano e Bersani, così come non abbiamo condiviso il giudizio favorevole di una parte consistente della nostra organizzazione sindacale, la Cgil. L'abbiamo considerato un errore politico storico. Perché fa tornare il dibattito giuslavoristico indietro al 1960.
Negli anni '50 in molte aziende si veniva licenziati solo perchè si era iscritti alla Cgil. Nelle grandi fabbriche venne introdotto un metodo feroce e terroristico "l'ordine dei cimiteri", nacquero i reparti confino, la repressione fu forte, si veniva espulsi dalle fabbriche, unitamente alla Cgil. C'è qualche somiglianza con tutto ciò che sta avvenendo nella Fiat di Marchionne. In quegli anni nasce il bisogno della tutela giuridica; nessun lavoratore deve essere licenziato senza giusta causa e giustificato motivo!
L'idea che si possa essere licenziati anche in presenza di una sentenza che dà ragione al lavoratore (il giudice può decidere che basta un indennizzo economico per confermare il licenziamento per motivo oggettivo), mi fa venire la pelle d'oca! Per questo consideriamo le critiche alla nostra scelta di indire i referendum sul lavoro prive di fondamento e lontane dalla storia e dalla cultura della Cgil. L'autonomia della Cgil la difendiamo a partire dalla bontà dei contenuti e dalla forza del nostro programma strategico che è il documento congressuale, che si poneva l'obiettivo di difendere lo Statuto dei Lavoratori dall'attacco di Berlusconi e Sacconi. L'anomalia Monti non può farci cambiare idea.
*Segretario Nazionale Cgil, coordinatore area Lavoro Società


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Ilva, i Verdi contro il Governo: "Ecco i dati che voi nascondete". E parte la querela

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Questo il “quadro clinico” di Taranto e provincia. Aumento del 10% dei decessi per tutte le cause e del 12% per tutti i tumori. Per i tumori del fegato e dei polmoni in provincia poi e' stato rilevato un aumento del 24%, per i linfomi del 38%, per i mesoteliomi del 306% per cento, mentre per i bambini si registra un +35% di decessi sotto un anno di eta' e per tutte le cause, e un +71% per le morti nel periodo perinatale. Dati che lasciano poco spazio alle interpretazioni. Dati che sono il risultato degli studi dell’Istituto superiore di Sanità. Eppure Corrdo Clini, il ministro dell’Ambiente, a cui la vicenda Ilva sembra “stare a cuore” in modo straordinario, dice che sono tutti da verificare. A doverglieli ricordare sono stati oggi i presidenti dei Verdi, Angelo Bonelli, e dell'associazione Peacelink, Alessandro Marescotti. A Polemizzare ci si è messo anche il ministro della Salute, Renato Balduzzi, che parla di “dati provvisori'' che dovranno essere ''completati nelle prossime settimane''. Balduzzi ha ribadito che entro il 12 ottobre arriveranno anche i nuovi dati sul monitoraggio biologico degli allevatori e l'inquinamento dei mitili. Per i Verdi e Peacelink, invece, il governo avrebbe tenuto nascosto queste cifre. ''Il dato molto grave - ha detto ancora Bonelli - e' che si e' voluta sottacere una verita' ai cittadini di Taranto, probabilmente per condizionare fatti che in realta' non possono essere piu' condizionati''. Accuse pesanti che hanno indotto Clini a dare mandato all'Avvocatura dello Stato di querelare il leader dei Verdi. Tra le cifre fornite da Bonelli e Marescotti, c'e' anche quella relativa a 776 decessi in piu' in quattro anni a Taranto e Statte rispetto alle statistiche medie. Per gli ambientalisti, nello studio 'Sentieri' ci sarebbero ''eccessi statisticamente significativi correlabili in molti casi all'inquinamento''.

Oggi all'Ilva sono arrivati i tecnici del gruppo Paul Wurth, accompagnati dal vicepresidente del gruppo in Italia, Fabio Fabiola, che hanno compiuto un sopralluogo nell'area dei parchi minerali. Il gruppo Paul Wurth e' stato incaricato dall'Ilva di studiare il progetto di fattibilita' di una eventuale copertura dei parchi minerali. Mentre si attende il parere della Procura sul piano di investimenti dell'Ilva e sulla istanza aziendale di conservare una minima capacita' produttiva (sara' il gip poi a decidere), e' sul fronte occupazionale che si registrano nuove tensioni. Fillea-Cgil segnala che due ditte dell'appalto Ilva, Semat spa e Edil Sider, hanno annunciato ai lavoratori di voler procedere a ferie forzate e ricorrere eventualmente alla cassa integrazione per 490 dipendenti, 450 della Semat e 40 della Edil Simer. Le due ditte avrebbero gia' ritirato i mezzi e il personale che operavano nell'area a caldo sotto sequestro dal 26 luglio.


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Diritti civili e norme anti-Casta, così vincerò le primarie”. Parla Laura Puppato

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Intervista all'outsider Laura Puppato, l'imprenditrice trevigiana che si è candidata alle primarie del centrosinistra: "Sì a matrimoni gay ed una legge sul fine vita". E per arginare Grillo, "ricreiamo il rapporto di fiducia tra politica e cittadini". La futura coalizione? "Intanto un Pd forte poi si vedrà" .
Intervista a Laura Puppato 
“Subito una legge in Parlamento sul fine-vita e sì ai matrimoni gay”, “taglio di tutti i privilegi alle cariche istituzionali, a partire dalle auto blu”. Parola di outsider. Laura Puppato, la 55enne imprenditrice trevigiana e attuale consigliera regionale del Veneto, ha le idee chiare. Sa da dove viene e soprattutto dove vuole arrivare: “Gareggio nelle primarie per vincerle”. E sul rapporto col movimento Se non ora quando, “ci ho partecipato e condiviso le battaglie, ancora adesso c’è un rapporto”.
Perché la decisione di candidarsi alle primarie del centrosinistra?
La questione prendeva una brutta piega: le primarie – che sono uno strumento importante sia per creare una relazione con la gente sia per parlare da subito di contenuti – stavano diventando una “rissa” interna al partito. E la politica? I programmi? Nulla di tutto ciò. Così ho fatto un passo in avanti.
Lei più volte ha insistito sull’idea di “Pd forte”. Per caso ha in mente di tornare alla vocazione maggioritaria di memoria veltroniana o già adesso ipotizza il tipo di coalizione che dovrà formare il prossimo governo di centrosinistra?
Il mio partito deve essere il traino del Paese, in grado di rilanciare l’Italia e ridare credibilità alla politica agli occhi dei cittadini ormai sfiduciati: il 40 per cento degli italiani non vota, un altro 20 sostiene Grillo o sposa la sua idea “distruttiva”, rimane solo un altro 40 per cento… poco, troppo poco. E con questa legge elettorale, per avere una stabilità al governo dobbiamo superare il 30, altrimenti saremo condizionati da altri soggetti e – vista la crisi – c’è bisogno di una coalizione unita e con una chiarezza di intenti. Ci vogliono scelte coraggiose e un governo forte.
Che giudizio dà dei tecnici? Il Pd è stato costretto a sostenere un esecutivo innaturale con Udc e Pdl. Scelta giusta?
Monti ha avuto il merito di ridare credibilità al Paese, era una fase necessaria. L’errore sarebbe continuare: adesso deve tornare la politica, i partiti. Poi ovvio alcuni provvedimenti hanno creato malumore come la riforma pensionistica e il caso degli esodati, si poteva fare meglio, ma i tecnici hanno avuto un ruolo indispensabile.
Il suo programma. Partiamo dal lavoro. Quali sono le sue ricette per rilanciare l’economia nel Paese? Cosa ne pensa della manomissione dell’art 18 votata tra l’altro anche dal suo partito?
Un Paese civile deve pensare all’equità, soprattutto quando le diseguaglianze sociali si stanno ampliando. E’ necessario prestare attenzione a come investiamo i soldi pubblici: sono stati, ad esempio, sperperati per l’Alcoa o per la Fiat perché manca una politica industriale e di sviluppo economico. Le imprese devono essere messe nelle condizioni idonee: lo Stato dovrebbe garantire rispetto al sistema giudiziario, ai trasporti, all’infrastrutture, alla burocrazia (tempi celeri per le pratiche), defiscalizzare il costo del lavoro. In cambio l’impresa deve mettere in campo innovazione e ricerca, essere in grado di efficientare impianti e rispettare l’ambiente. Così garantisce anche reddito, diritti ed occupazione. L’economia non riparte toccando l’art 18, così come ritiene Marchionne.
Come pensa di arginare la spinta “anti-Casta” di Grillo? Anche per lei, come Renzi, è per un rinnovamento generale?
La questione non è anagrafica. Abbiamo affrontato un periodo sciagurato, quello del berlusconismo, che ha distrutto la giustizia e occupato l’informazione; fatto perdere credibilità al Paese. Pensiamo alla depenalizzazione del falso bilancio o al Porcellum che non è il nome di una legge ma l’emblema della sconfitta di questa politica fatta di illusione e frode. Ricreare il rapporto cittadini-politica, questo l’arduo compito: riconquistare la fiducia delle persone. Se non si mantengono le promesse… si va a casa!
Esempi concreti: riduzione a due mandati in ogni istituzione, pausa eguale al mandato se si intende passare da una istituzione all’altra, incompatibilità tra parlamentare e ministro e tra mandati elettorali in diverse istituzioni. E’ d’accordo?
Certo, sono anche per uno stipendio di parlamentare in base alla media europea, all’azzeramento dei privilegi a partire dalle auto blu. Continuo?
No, passiamo ad altro. Cosa ne pensa del matrimonio tra gay?
Assolutamente favorevole. Sono cattolica e credo, senza indugi, che la Chiesa sbagli ad avere atteggiamenti ostruzionistici e astorici sui temi etici. Sembra rimasta ancorata a due secoli fa. Altro esempio sono i registri comunali sul fine vita: un modello per una legge nazionale che dovremmo fare nel prossimo Parlamento. E’ un fatto di civiltà.
L’ha detto ai vertici del suo partito?
Rispetto al Pd sui diritti civili ho una posizione più avanzata: la convinzione che si debba essere attenti alle sensibilità di tutti cittadini. Bisogna rispettare la dignità umana, in quanto tale, e far sentire chiunque a casa propria. Chiunque, garantendo diritti

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martedì 18 settembre 2012

Fiat, il silenzio del Governo e il piagnisteo di Marchionne. Fiom: "Così Fiat salta in Italia"

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Mentre nel paese cresce il clima di tensione (a Pomigliano stamattina c’è stato un lancio di uova contro la sede della Uilm) e i sindacalisti non riescono a prodursi in niente di meglio che non sia la classica arrampicata sugli specchi,(Bonanni dice che l’intervista di Sergio Marchionne coparsa oggi su Repubblica ha chiarito molte cose) il Governo continua a tacere su tutta la linea. Ha installato sì un call center "passivo" a palazzo Chigi ma per il resto preferisce asttendere. E, nell'attesa, il titolo del Lingotto è costretto ad una piccola ma significativa perdita (circa due punti). Sergio Marchionne non convince. E’ questa la sintesi della giornata. Le dichiarazioni rilasciate ad Ezio Mauro, direttore di Repubblica, sono tutte un piagnisteo su quanto è brutto il mercato e quanto sono da “bar dello sport” certe dichiarazioni di alcuni imprenditori italiani contro di lui. Insomma, esce fuori un quadro inquietante in cui l’Italia è data per spacciata e quindi di fatto è una palla al piede per l’azienda che ormai si confronta con una dimensione mondiale. E anche se non ci saranno licenziamenti subito è chiaro che alcuni stabilimenti dovranno sacrificarsi. Il primo a capire cosa sta realmente accadendo è stato il segretario della Fiom di Torino Giorgio Airaudo: “Quelle di Marchionne "non sono rassicurazioni, e' solo un modo per prendere tempo. Non e' la prima volta che dice che mantiene gli stabilimenti in Italia con le vendite ed i profitti fatti all'estero quindi penso che sia sempre piu' urgente che questo paese stabilisca un patto con la Fiat, serve un accordo e solo il governo puo' farlo. Serve uno dei tanti accordi che la Fiat ha fatto in giro per il mondo".
Il Governo, ovviamente fa orecchie da mercante. Non è escluso però che siano al lavoro le varie diplomazie segrete per arrivare a qualcosa da dare in pasto all’opinione pubblica. La crisi Fiat arriva infatti “al momento giusto”. Da una parte serve ai partiti per proporre l’improponibile (che quasi mai coincide con gli interessi dei lavoratori) e, dall’altra, a consumare una definitiva resa dei conti in un pezzo di classe dirigente in evidente crisi di idee, e di capitali. Marchionne viene addirittura definito 'pinocchio del giorno' dal quotidiano economico tedesco Handelsblatt, che cita l'ad di Fiat sulle promesse lanciate con Fabbrica Italia, per poi smentirlo con le nuove decisioni del gruppo. Il 21 aprile 2010 – ricorda il giornale nella rubrica con cui abitualmente pungola politici e personaggi del mondo economico-industriale con le loro 'bugie' - disse che avrebbe ''sviluppato la presenza di Fiat in Italia come centro strategico per la produzione, gli investimenti e l'export''. Ora il dietrofront. E’ vero che Marchionne ha un conto aperto con i tedeschi ma la formulazione dell’Handelsblatt è ineccepibile. Che non tiri aria buona è tornata a dirlo pure la Fiom. Il suo segretario generale Maurizio Landini rintrattica nelle parole dell’Ad del Lingotto la chiara intenzione di “andarsene dall'Italia. “Il problema e' ben piu' grave dell'ipotesi della chiusura di uno stabilimento – aggiunge -. Allo stato attuale vuole non investire in Italia e questo comporta il rischio che l'intero settore auto salti. Il problema e' impedire che cio' avvenga"."Il governo – aggiunge Landini - dovrebbe fare quello che fanno i governi dove ci sono problemi di questa natura, ovvero quello che ha fatto Obama, quello che hanno fatto in Germania e in Francia. E cioe' chiedere alle imprese di fare investimenti e prevedere anche una politica industriale compreso l'intervento pubblico che salvaguardi le attivita' produttive del nostro Paese, a partire dalla produzione di auto che resta strategica".

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lunedì 17 settembre 2012

Dopo 100 anni di aiuti pubblici la Fiat lascia l’Italia

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Tante le menzogne dette negli ultimi anni ma la verità è che gli Agnelli e Marchionne vogliono chiudere tutte le fabbriche 
La conferma è stata data dallo stesso Sergio Marchionne. L’amministratore delegato svizzero-canadese ha messo le mani avanti per affermare che in conseguenza della crisi in corso e del tracollo del mercato dell’auto, la Fiat si vedrà costretta (sic) a rivedere il suo piano “Fabbrica Italiana” che, secondo quanto millantato dal Lingotto avrebbe dovuto rilanciare la produzione di auto in Italia ed evitare la chiusura di altri stabilimenti in Italia dopo quello di Termini Imerese alla fine del 2011.
In questa fase, recita un comunicato Fiat, è impossibile fare riferimento ad un progetto che era nato due anni e mezzo fa in base al quale si sarebbero dovuti investire fino a 20 miliardi di euro ed arrivare a produrre 1,4 milioni di vetture in Italia. Il piano Fabbrica Italiana, già dall’inizio, era stato giudicato dai pochi e attenti osservatori e da due soli sindacati come la Fiom-Cgil e dai Cobas, come una vera e propria presa in giro.

Mancavano infatti i dettagli che Marchionne e il suo datore di lavoro John Jacob Elkann si erano riservati di illustrare in un futuro che si è progressivamente sempre più spostato avanti nel tempo.
Ad abboccare, ingoiando amo, lenza e canna da pesca, non erano stati soltanto i sindacati “collaborazionisti” del settore metalmeccanico tipo Fim-Cisl e Uilm, Ugl e Fismic, ma anche i partiti politici di centrodestra (PdL e UdC) e in misura minore di centrosinistra (PD) più che pronti a sostenere le ragioni della Fiat che, in nome del Mercato e della necessità di essere messa nelle condizioni di affrontarlo, doveva essere lasciata libera di agire. Così, dopo aver approvato il nuovo modello contrattuale che sanciva il passaggio da un contratto nazionale di lavoro ad uno aziendale basato sugli straordinari e sui premi di produzione, i sindacati collaborazionisti avevano completato l’opera ponendo anche la propria firma ai due accordi per Pomigliano e per Mirafiori. Entrambi rifiutati dalla Fiom-Cgil che in tal modo si era ritrovata esclusa dalle rappresentanze sindacali aziendali. Il nuovo corso della Fiat si era poi caratterizzato dall’uscita da Federmeccanica e dalla disdetta data al contratto nazionale dei metalmeccanici. Il traguardo da raggiungere era e resta quello di arrivare a siglare un contratto dell’auto con l’obiettivo di tagliare ogni possibile mediazione e portare l’azienda a trattare direttamente con quei sindacati disposti ad accettare qualsiasi richiesta di Marchionne pur di poter spingere nell’angolo la Fiom di Maurizio Landini e di rifarsi di decenni di sudditanza.
Un disegno che soltanto adesso si sta materializzando nelle menti già ottenebrate dei sindacati “collaborazionisti” che finalmente sembrano aver compreso quale strategia di lungo periodo Marchionne e gli Agnelli-Elkann stiano perseguendo da quando hanno preso in mano la Fiat.
La strategia, tanto per essere chiari, è quella di chiudere gli stabilimenti italiani ed andare a produrre all’estero dove il costo del lavoro è molto minore che in Italia. La busta paga netta di un operaio italiano è di media sui 1.100-1.200 euro se va bene. Quella di un operaio polacco o brasiliano sui 600 euro e quella di uno serbo sui 200 euro. La tirata fatta da Marchionne sulla bassa produttività degli operai italiani è quindi una balla. Da tempo la Fiat ha smesso di progettare e di produrre nuovi modelli di vettura che non siano quelle del segmento A (cittadine come la 500 e la Panda) e del segmento B (utilitarie come la Punto) sui quali il Lingotto basa la propria forza. Nel segmento C (le famigliari) la Bravo non è mai riuscita a scalfire il predominio della Golf della Volkswagen. E si tratta del segmento che assicura i più alti profitti. Mentre nei primi due i guadagni sono risicati e non assicurano l’autofinanziamento.
La Fiat ha sempre sofferto di essere identificata con i primi due segmenti che le hanno attribuito in passato la nomea di produttrice di auto di non eccelsa qualità. Se a questo poi si aggiunge che pesa il ricordo di due auto bidone come la Duna e la 126 prodotta anni fa in Polonia, il disastro è completo. La stessa integrazione produttiva e societaria con la Chrysler è finalizzata a chiudere a la produzione in Italia. Lo dimostra il fatto che la nuova Panda prodotta a Pomigliano è un adattamento della vecchia e il Suv prodotto a Mirafiori è una versione più recente della Jeep della Chrysler. Dal punto di vista societario, gli Agnelli Elkann vogliono che il loro attuale 30% di Fiat finisca per diluirsi di importanza nel nuovo gruppo on la Chrysler della quale ora il Lingotto detiene la maggioranza e che la Famiglia finisca per avere una quota minoritaria attraverso la più classica delle operazioni di ingegneria finanziaria. Mentre di nuovi modelli Fiat manco si vede l’ombra, la Chrysler è tornata a produrre vetture e a macinare utili come lo stesso Marchionne giorni fa ha trionfalmente annunciato. E questo vale più di tante altre considerazioni sul futuro della Fiat. Gli Agnelli-Elkann non hanno più intenzione di mettere soldi nell’auto. Lo Stato che per 100 anni ha foraggiato la Fiat con finanziamenti a fondo perduto e agevolati, il mercato interno protetto, la svendita dell’Alfa Romeo praticamente regalata, le casse integrazioni a raffica, non ha più la possibilità di sciogliere i cordoni della borsa e lasciare il Lingotto nella sua natura di impresa pubblica di fatto. Quindi addio Italia e tanti saluti agli operai e ai risparmiatori che sono stati così polli di comprare azioni Fiat, consigliati come erano dai giornali “padani” legati al gruppo torinese.
L’aspetto incredibile di questa vicenda è l’atteggiamento complice della politica. La Fiat, aveva detto mesi fa Mario Monti, non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia, e chi la gestisce ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti le localizzazioni più convenienti. Marchionne gli ha fatto eco. Fiat-Chrysler- si è difeso, è oggi una multinazionale e quindi, e come tale, ha il diritto e il dovere di compiere scelte industriali in modo razionale e in piena autonomia.

- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

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domenica 16 settembre 2012

Fiat, il Governo ha paura del confronto. E non lo nega. Teatrino anche su questa vicenda?

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Per carità “nessuna convocazione ufficiale” solo sapere cosa ha in mente Marchionne sui suoi investimenti. Questa è alla fine la “discesa in campo” del Governo sulla spinosa vicenda Fiat. A chiarire i termini è stato il ministro Fornero. Un po’ più deciso il ministro Passera ma pur sempre nel ristretto perimetro delle “norme”. Cioè mentre la Fiat rischia di saltare in Italia a causa delle forti flessioni del mercato e di un piano, “Fabbrica Italia”, che a due anni dalla sua conclusione è letteralmente a pezzi il Governo preferisce usare parole di cautela. Del resto l’avevamo già visto a marzo quando l’Ad Sergio Marchionne andò a scambiare quattro chiacchiere con il premier Monti, ufficialmente per presentare l’ultimo modello. Entrambi uscirono dicendo che la Fiat poteva fare quello che gli pareva, anche delocalizzare se lo riteneva più opportuno.

Il sindacato è infuriato per l'annuncio della fine di Fabbrica Italia, dato direttamente dall'azienda, ed anche diviso. Il vecchio fronte pro-Fiat sembra ancora tenere, però. E così tocca a Susanna Camusso sollevare un po’ di polemica. Fu lei, quando si trattò di votare il referendum a dare indicazioni ai lavoratori per un voto positivo. ''Possiamo aspettare ancora? Facciamo le telefonate? O e' ora che il governo prenda in mano la situazione? E non chieda a Fiat cosa intende fare, ma dica a Fiat cosa intende fare il Paese?'', tuona la leader della Cgil, aggiungendo che ''l'azienda ha preso in giro tutto il Paese'' e che e' l'occasione per una scelta unitaria. Per il numero uno della Fiom, Maurizio Landini, dev'essere il premier Mario Monti a convocare azienda e sindacati ''dopo due anni di vuoto e assenza del governo''. Concordano con Passera il segretario generale della Cisl, Raffale Bonanni e dell'Ugl, Giovanni Centrella.

''Chiedo con insistenza a Marchionne - dice Bonanni – di arrivare a un chiarimento pubblico con noi prima di presentare il piano a ottobre per fugare ogni equivoco''. Certo, se Bonanni chiede “con insistenza” al padrone della Fiat di chiarire allora sì che bisogna stare preoccupati. Stranamente, però, il segretario della Cisl usa maggiore durezza con la Cgil e, più velatamente, con la Fiom. “L'unico fallimento finora lo hanno avuto coloro che hanno perseguito una linea disfattista, contro gli interessi dei lavoratori e del paese'' dice in risposta a Susanna Camusso che ha definito un errore la rottura del fronte sindacale sul conratto Fiat.

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sabato 15 settembre 2012

Il fiscal compact cancella la sinistra

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Qualunque sarà la maggioranza di governo, si dovrà tagliare il bilancio di un 3%, circa 48 miliardi di euro ai valori attuali. Ma allora come è possibile, permanendo questi vincoli economici, una politica anticiclica che ci porti fuori dalla crisi senza un massacro sociale?
Desta stupore la rimozione del tema del fiscal compact, e delle conseguenze che ne derivano, dal dibattito sulle scelte elettorali della sinistra italiana. Naturalmente se ne parla in convegni economici, da ultimo quello di Sbilanciamoci. Ma quando entrano in scena gli attori politici scende il silenzio.
Non credo si tratti solo del tradizionale provincialismo che affligge la politica nel nostro paese, per cui tutti si dichiarano europeisti e poi se ne scordano quando le elezioni si avvicinano. Né che siamo soltanto di fronte alla deleteria separazione della cultura economica dalla politica che è all’origine della tecnicizzazione della prima e dello svuotamento della seconda. Qui c’è qualcosa in più e di più grave.
Vi è l’introiezione più o meno confusamente consapevole, ma fortemente condizionante, che in fondo non c’è null’altro da fare; che i vincoli posti dalle élites economico finanziarie europee sono ineludibili, almeno nei tempi programmabili; che la reazione dei mercati al solo annuncio di deviare da questi sarebbe mortale; che dunque, nel migliore dei casi, si tratterebbe di ritagliarsi un piccolo spazio di manovra al loro interno. Il tutto connesso con la speranza o di aggiustare qualcosa, all’italiana, mettendosi d’accordo con la Commissione europea, fingendo di dimenticare la sua composizione, i suoi precedenti e soprattutto il fatto che il mancato rispetto delle norme di rientro dal deficit e dal debito prevedono nel nuovo trattato immediate sanzioni automatiche. Oppure cercando di convincersi che il nuovo patto è talmente brutto e rigido per essere applicato, dimenticando che la storia del novecento – per fermarsi lì – ha visto implementati con assoluta inflessibilità, oltre che declamati, norme e propositi ben peggiori, con immani tragedie per le popolazioni europee.
In sostanza assistiamo a uno sfondamento nel campo della sinistra, compreso ovviamente quella che si colloca alla sinistra del Pd, di un ricostruito pensiero unico che nel fiscal compact trova il perno di una nuova soffocante governance europea.
Eppure le prove in negativo degli effetti micidiali di queste norme già sono noti. Basti pensare alla vicenda dei socialisti francesi. La loro vittoria, costruita sulla base di un programma certamente di sinistra, anche se moderata, incalzati peraltro da un ben più radicale Front de Gauche, aveva aperto speranze in tutto il continente e di per sé non aveva suscitato la tanto temuta reazione vendicativa dei mercati finanziari. Da quando Hollande ha dichiarato, pur non mettendolo in Costituzione (cosa non obbligata dal nuovo trattato, che la ritiene misura solo preferibile) di fare approvare dal parlamento il fiscal compact, l’intero suo programma di riforme sociali interne ha subito uno stop ed è cominciata a declinare la fiducia dei francesi che lo avevano votato nel nome di una rinascita della sinistra.
Nel caso italiano stiamo assai peggio. Per eccesso di zelo si è proceduto alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, con un Pd protagonista anche nel rifiutare l’appello che diversi tra noi gli inviammo affinché non i raggiungesse la maggioranza dei due terzi che impedisce il referendum. In virtù del fiscal compact ci aspettano venti anni nei quali, qualunque sarà la maggioranza di governo, si dovrà tagliare il bilancio di un 3%, circa 48 miliardi di euro ai valori attuali. Keynes è stato cacciato dalla legislazione di bilancio e dalla Costituzione.
Il tema, prima e di più che non quello delle alleanze, è quindi il seguente: come è possibile, permanendo questi vincoli, condurre una politica economica anticiclica che si prefigga di uscire dalla crisi senza un massacro sociale? Basta dare uno sguardo ai dati della recessione italiana, al crollo della produzioni industriali, al dilagare della disoccupazione e del precariato, alla sistematica distruzione delle conoscenze e delle intelligenze, al deperire della vita democratica e civile, per capire che non si tratta nei prossimi mesi e anni semplicemente di spostare qualche cifra entro un quadro ferreo già dato di riduzione complessiva della spesa, ma che al contrario sono i saldi complessivi che vanno modificati. Ci vuole più spesa intelligentemente e socialmente produttiva, non meno.
Né si può bypassare il problema semplicemente dicendo che bisogna fare più lotta all’evasione fiscale e introdurre una vera patrimoniale. Cose entrambe necessarie e urgenti, soprattutto la seconda. Ma una sinistra degna di questo nome dovrebbe sapere che non si tratta solo di ridistribuire quello che già c’è, soprattutto dentro la più grave crisi economica di tutti i tempi per quanto riguarda l’Europa, ma di creare una nuova ricchezza sociale, puntando alla piena occupazione e alla valorizzazione in tutti i sensi del lavoro in tutte le sue nuove forme e che tutto questo non lo si può fare se la preoccupazione principale nei prossimi venti anni è la riduzione a tappe forzate del debito.
Se poi, in virtù delle decisioni recentemente assunte dalla Bce – che sembrano fare egemonia anche tra i portatori di un pensiero solitamente critico – dovessero scattare le famose “condizionalità” a fronte di una richiesta di aiuti per l’acquisto dei nostri titoli di stato sul mercato secondario, la nuova governance europea darebbe un ulteriore giro di vite, rendendo praticamente inutile la competizione elettorale, dal momento che il corso della politica che verrà risulterebbe già minuziosamente tracciato.
Un vero centrosinistra può nascere solo se nel suo programma è ben chiara la necessità di una ridiscussione immediata del fiscal compact. Altrimenti non si può fare perché la sinistra non avrebbe voce. Né una simile questione può essere demandata all’esito delle primarie, poiché essa costituisce una delle linee essenziali che definiscono il perimetro della coalizione e dunque va risolta prima. A meno che non si pensi, come dice Matteo Orfini, in un’intervista al manifesto, che la modifica della legge elettorale porterà a primarie «per la premiership della lista unica». Ma questo significherebbe il definitivo abbandono del progetto della ricostruzione di una forza di sinistra autonoma nel nostro paese. Non solo quindi la sinistra dovrebbe evitare di andare in ordine sparso al confronto programmatico con il Pd – e la scelta di indire unitariamente il referendum per la restituzione dell’articolo 18 è un buon segnale, anche se avviene su un altro terreno -, ma anche mettere nel conto la possibilità di scelte autonome in campo elettorale, se la coalizione di centrosinistra si configurasse come una semplice articolazione delle politiche rigoriste rafforzate della Ue.

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Il piano Fiat non poteva reggere. E' inutile che si inventino scuse"

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Ve l’avevamo detto che andava a finire così, Ve l’avevamo detto”. Pasquale Lojacono è stato, fino a quando la Fiom era presente a Mirafiori, rappresentante sindacale. Uno di quelli che con i lavoratori ci parlava sul serio. Ancora oggi quando gli domandi cosa pensa della vicenda Fiat la prima risposta è connotata “al plurale”. E poi aggiunge: “Non c’è stato il tempo materiale e l’occasione di parlare con i compagni” (le tute blu della squadra in produzione, ndr). Pasquale è giovane, ma ha avuto “il tempo e l’occasione” di ricevere il testimone da quei sindacalisti del “novecento” che dentro la Fiat avevano maturato, e poi a loro volta riversato a chi è venuto dopo di loro, il curriculum universitario in “lotta di classe”. Una vittoria morale? “E che ci faccio della vittoria morale”, risponde. “La situazione è drammatica”. “Il problema non è l’arrivo al suolo – aggiunge Ugo, un sindacalista con un lungo passato come rappresentante sindacale alla Fiat – ma l’atterraggio”.
Che le cose andassero in questo modo l’avevate detto, è vero. E non solo perché avevate il dente avvelenato dall’esclusione della Fiom dalla Fiat con un provvedimento che non ha precedenti. Avevate letto i numeri di Fabbrica Italia. E l’avevate interpretati nel senso giusto.
Era evidente che non poteva reggere. E i lavoratori l’avevano capito già all’epoca del referendum. Al montaggio sono convinto che il 70% abbia votato no. Anche quelli che hanno votato sì poi alla fine avevano la morte nel cuore perché avevano capito anche loro. Ultimamente facevamo 900 vetture al giorno con 4.900 lavoratori, Prima di Fabbrica Italia con 2.500 lavoratori in più in più ne facevamo appena sopra i mille. Quindi, ciò vuol dire che in ogni caso quel piano avrebbe comportato tanti esuberi. E comunque l’obiettivo di un milione e quattrocentomila vetture senza un rinnovamento vero della gamma sarebbe rimasta una cifra buttata lì anche senza la scusa della crisi di mercato.
L’agibilità sindacale in Fiat è a zero. Quale sarà la risposta?
A Mirafiori in questi due anni si è lavorato molto poco. Su sette mesi giusto un paio di settimane. La poca presenza in fabbrica ci ha messo fuori dall'azione sindacale. Se consideriamo poi l’azzeramento della rappresentanza arriviamo all’isolamento totale. Costruire un nostro pensiero su questo è stato un po’ complicato. E’ chiaro che una reazione va prodotta. Anche se personalmente non credo ad una esplosione imminente delle contraddizioni.
Cioè, che vuoi dire?
Marchionne ci farebbe un regalo se dicesse che non fa più gli investimenti che ha dichiarato. Almeno per un anno proveranno a spostare in avanti la drammatizzazione perché altrimenti sarebbero costretti a darci ragione. Se l’ammettessero poi sarebbe per noi una occasione per costruire un rapporto con le istituzioni e con la cittadinanza.
Il mondo politico è in grande difficoltà.
Non credo che la politica non sapesse cosa stava accadendo in realtà. Solo chi ha gli occhi bendati non è in grado di capire. Hanno girato la testa dall’altra parte. Come quando parlano di defiscalizzazione della produttività non si rendono conto che il trenta per cento dei lavoratori non lavora a causa della cassa integrazione.


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Fiat, Passera richiama il Lingotto «Serve chiarezza su Fabbrica Italia»

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Fornero: Ho chiesto un incontro a Marchionne nei prossimi giorni»
Bonanni: «Indicazione forte, se salta la Fiat il sud è nei guai»
Il ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera (Ansa)
Venerdì sera era arrivata persino le accuse di Cesare Romiti, storico amministratore delegato della Fiat, sulla strategie manageriali dei vertici della casa torinese, sabato è arrivata la dichiarazione più attesa. Quella del ministro Passera: «È giusto, importante ed urgente fare chiarezza al più presto possibile al mercato e agli italiani», ha detto il ministro dello Sviluppo, ribadendo che «è ovvia l'attenzione del governo sul settore dell'automotive. Vogliamo capire fino in fondo le implicazioni di una serie di annunci che si sono susseguiti e che non permettono ancora di comprendere le strategie di Fiat in Italia. Faremo di tutto perchè nell'ambito della crescita di Fiat l'Italia abbia un ruolo importante. Non è pensabile - ribadisce Passera - che la politica si sostituisca alle scelte imprenditoriali e di investimento ma assicuriamo massima attenzione ed impegno. Non sarà certo il governo a sostituirsi alle responsabilità imprenditoriali e a prendere le decisioni di investimento dell'azienda».
IL POSSIBILE INCONTRO - «Il governo da parte sua e nei limiti di quanto le norme consentono farà la sua parte per assicurare che questa informativa venga data e per far sì che nel piano sviluppo del gruppo Fiat che riteniamo importante, l'Italia abbia un ruolo il più possibile valorizza» ha proseguito Passera appena arrivato al meeting della Confesercenti in corso a Perugia. «Non è questione di telecronaca di incontri. Queste sono cose che spesso non servono e neanche aiutano», ha risposto il ministro a una domanda su un possibile incontro del governo con i vertici Fiat. Incontro, peraltro, chiesto dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero che da Verona dice: «Vorremmo veramente approfondire con il dottor Marchionne che cosa ha in mente per i suoi piani d'investimento e per l'occupazione in questo paese», aggiungendo di aver già chiesto all'amministratore delegato della Fiat un incontro e di confidare che questo possa avvenire «nei prossimi giorni.
BONANNI: «FORTE INDICAZIONE CULTURALE» - Positiva l'immediata reazione dei sindacati, con il segretario nazionale della Cisl Raffaele Bonanni che, dallo stesso palco, prima scherza («Passera ha detto una cosa importante, come avrebbe fatto un politico. Perchè anche Passera è un politico...»), poi evidenzia: «Passera ha detto, voi fate la vostra parte, noi facciamo la nostra. È una indicazione culturale forte al Paese», facendo riferimento alla questione degli aumenti salariali legati alla maggiore produttività.
LA QUESTIONE DEL MEZZOGIORNO - Bonanni ha poi voluto sottolineare: «Io ho il problema di centinaia di migliaia di persone nel centro-sud che, se salta la Fiat, sono nei guai. Questi della Fiat non sono dei santi, non sono dei filantropi, ma sono gli unici che in Italia sanno costruire automobili e, se saltano loro, ci fanno ballare in tutto il Mezzogiorno». Quindi, sull'onda lunga della richiesta di chiarimenti espressa da Passera, il leader della Cisl ha richiesto che Marchionne chiarisca «subito. Prima di portare il piano deve dire in un luogo pubblico che lo sospende solo perchè il mercato va male e che ripartirà quando il mercato si riprenderà».

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Primi licenziati col "nuovo" art. 18: discriminazione sindacale

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Al via i "licenziamenti per motivi economici" permessi dal "rinnovato" art. 18. E sono casi di discriminazione sindacale piena.

Referendum, per Yuri e altri
Mauro Ravarino
Ti chiamano alle 12 o alle 16,30, poco cambia. Sei appena tornato dalle ferie o, peggio, dalla cassa integrazione. Non hai nemmeno il tempo di pensare cosa vorranno dirti che ti avvisano subito: vai in ufficio, ti vuole il direttore o la segretaria del capo del personale. Pochi dettagli non cambiano una storia che si ripete quasi in fotocopia. Percorri i corridoi della fabbrica e quando si apre la porta della stanza, l'atteggiamento di chi ti accoglie è ogni volta identico: freddo ma educato. Il motivo della chiamata è lo stesso, per tutti, licenziamento per «motivi economici».
È successo a Vittorio, Yuri, Mirko, Martino, Daniele e Paolo. Cinque sono iscritti alla Fiom, uno è un ex iscritto. Sono, tra i metalmeccanici, le prime vittime della riforma Fornero, che ha modificato, svuotandolo, l'articolo 18. D'altronde la legge è in vigore dal 18 luglio, perché non applicarla si sarà detto qualche imprenditore (nei giorni scorsi ad approfittarne è stato il colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei, che ha lasciato a casa due lavoratori).
Questa è la storia di sei lavoratori scomodi. I primi tre lavorano in un'azienda dell'astigiano, gli altri in una ditta di Moncalieri, sessanta chilometri di distanza lungo le strade di un Piemonte sempre più marchionizzato. Partiamo da Cerro Tanaro, in provincia di Asti, dalla Lagor, che produce nuclei per trasformatori elettrici. Vittorio Gaffodio ha 45 anni e ci lavora dal '91. «L'ho vista crescere». È membro della segreteria provinciale delle tute blu della Cigl, eletto la prima volta Rsu nel 2003: «L'anno successivo chiediamo all'azienda un'analisi della polveri. Risulta la presenza di silicio e cromo esavalente. Preoccupati, chiediamo di fare installare degli aspiratori, ma la risposta è picche. Sono percentuali inique, dicono. Successivamente facciamo denuncia allo Spresal dell'Asl, che nell'ottobre del 2010 si presenta per le indagini. Da quel momento inizia nei miei confronti un duro attacco e continue pressioni. In bacheca compare un documento aziendale che parla di un rapporto di fiducia rotto, la direzione minaccia di togliere i premi aziendali». Vince la paura. «La Fim decide di raccogliere le firme per far decadere le Rsu». La Fiom che per sette anni era stata maggioranza alle elezioni perde. «E così, nei due anni successivi, ogni volta, che spuntava la cassa integrazione ero il primo a essere lasciato a casa, con il salario ridotto a 750-800 euro al mese, una moglie attualmente disoccupata e un mutuo da pagare».
Arriviamo a venerdì scorso, alle 12. «Stavo facendo il primo turno, mi chiama il direttore e mi dà un foglio. Da quel momento vengo licenziato per motivi oggettivi. In una recente visita, richiesta dal medico aziendale, sono stato considerato inidoneo nello svolgere il turno di notte». Il pretesto. «E pensare che in tutta la mia carriera in Lagor l'avrò fatto una settimana tanti anni fa». Vittorio si domanda: «Questi sarebbero licenziamenti economici? Si risolve la crisi mandando a casa tre lavoratori in uno stabilimento che ne conta cento? Non sono altro che discriminatori contro chi ha alzato la testa. Prima della riforma Fornero si sarebbe aperta una procedura di mobilità. Ora, non ho nemmeno il diritto agli ammortizzatori». Ma rimane ottimista e spera nel referendum contro la riforma.
Insieme a Gaffodio, il licenziamento è stato notificato a Mirko Passalacqua e a Yuri Cravanzola: «Non sarò un rompiscatole come Vittorio - racconta Cravanzola - ma da quando decisi di non firmare il documento che fece decadere le Rsu, anch'io ho subito pressioni e l'offerta di una buonuscita di 7 mila euro. Non l'ho accettata. Venerdì è stata una doccia fredda. Vogliono toglierci ogni diritto, renderci schiavi. Il ministro Fornero diceva che con la riforma ci avrebbe fatto un favore, mi chiedo ora, che avrebbe fatto se voleva farci un torto».
Sta seguendo da vicino la vicenda Giuseppe Morabito, segretario Fiom Asti: «C'è stato un calo di commesse, ma l'azienda non ha mai chiesto cassa straordinaria o mobilità. Impugneremo i licenziamenti e dimostreremo che i motivi non sussistono. Purtroppo, i lavoratori rischiano di vedersi riconosciuto solo l'indennizzo e non il reintegro».
A Moncalieri, alla Model Master, azienda di design con 150 addetti, stesso copione: tre lavoratori, iscritti alla Fiom e il pretesto della crisi. Martino Grisorio, ex Rsu entrato in fabbrica 25 anni fa, racconta la sua vicenda e quella dei colleghi, Daniele Giordanino e Paolo Bauducco, modellatori di stile: «Il 3 settembre, alle 16,30, veniamo convocati e ci viene data lettera di licenziamento con motivazioni oggettive di natura economica».
Per Giordanino non è una prima volta: anni fa era stato licenziato senza giusta causa e poi riammesso dal giudice, grazie all'articolo 18. Come alla Lagor, c'è un passaggio determinante: «Nei mesi scorsi ci siamo opposti all'adozione di un contratto stile Fiat, con l'uscita da Confindustria e dal contratto nazionale. E da quel momento l'azienda ha evitato ogni dialogo con noi, anche quando è stata decisa una quarta settimana di chiusura di alcuni reparti. Non sono veri i motivi economici: mesi fa sono stati assunti alcuni addetti nel nostro reparto. Noi siamo i primi a subire la riforma, c'è bisogno di un argine. Dobbiamo convincere i giudici della discriminazione». Mercoledì ci sono state due ore di sciopero. Secondo Edi Lazzi, funzionario Fiom, «questa vicenda testimonia come sia una legge sbagliata e da cambiare».


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