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lunedì 30 aprile 2012

1 Maggio Festa dei Lavoratori

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Il 1 Maggio nasce come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche, né tanto meno sociali, per affermare i propri diritti, per raggiungere obiettivi, per migliorare la propria condizione di lavoro.
"Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire" fu la parola d'ordine, coniata in Australia nel 1855, e condivisa da gran parte del movimento sindacale organizzato del primo Novecento. Si aprì così la strada a rivendicazioni generali e alla ricerca di un giorno, il primo Maggio, appunto, in cui tutti i lavoratori potessero incontrarsi per esercitare una forma di lotta e per affermare la propria autonomia e indipendenza.
Inizia così la tradizione del 1 maggio, un appuntamento al quale il movimento dei lavoratori si prepara con sempre minore improvvisazione e maggiore consapevolezza. L'obiettivo originario delle otto ore viene messo da parte e lascia il posto ad altre rivendicazioni politiche e sociali considerate più impellenti. La protesta per le condizioni di miseria delle masse lavoratrici anima le manifestazioni di fine Ottocento.

Il 1 maggio 1898 coincide con la fase più acuta dei "moti per il pane", che investono tutta Italia e hanno il loro tragico epilogo a Milano. Nei primi anni del Novecento il 1 maggio si caratterizza anche per la rivendicazione del suffragio universale e poi per la protesta contro l'impresa libica e contro la partecipazione dell'Italia alla guerra mondiale.

Si discute intanto sul significato di questa ricorrenza: giorno di festa, di svago e di divertimento oppure di mobilitazione e di lotta .

Un binomio, questo di festa e lotta, che accompagna la celebrazione del 1 maggio nella sua evoluzione più che secolare, dividendo i fautori dell'una e dell'altra caratterizzazione.

Qualcuno ha inteso conciliare gli opposti, definendola una "festa ribelle", ma nei fatti il 1 maggio è l'una e l'altra cosa insieme, a seconda delle circostanze più lotta o più festa.

Il 1 maggio 1919 i metallurgici e altre categorie di lavoratori possono festeggiare il conseguimento dell'obiettivo originario della ricorrenza: le otto ore. 
Certamente, è una festa figlia delle lotte del movimento operaio e socialista. Per la precisione, è figlia della rivendicazione - coniata in Australia nel 1856 - di «otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire». Quella dei «tre otto» era una parola d’ordine assolutamente rivoluzionaria nei paesi che si stavano rapidamente industrializzando, in cui prevalevano orari di lavoro di 11, 12 ore in condizioni spesso bestiali.
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domenica 29 aprile 2012

Se Hollande spacca la destra

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The Economist definisce il candidato socialista francese «uomo piuttosto pericoloso» e, se avesse un voto, lo darebbe al presidente uscente. La caccia disperata di Sarkozy ai voti del Front National allarma perfino i suoi. De Villepin sbotta: «Campagna indegna e senza ritorno». Si temono scontri il 1 maggio


Dominique de Villepin denuncia, con un intervento su Le Monde, «la corsa senza vergogna ai voti estremisti». L’ex primo ministro di Jacques Chirac non arriva certo ad invitare a votare per Hollande («la sinistra mi inquieta», scrive), ma attacca chiaramente Sarkozy. Parla di campagna del secondo turno «indegna», afferma che «le linee rosse repubblicane sono oltrepassate, una a una. Voglio dirlo oggi con gravità. E’ una strada senza ritorno». Villepin interpreta un malessere che serpeggia sempre più a destra, anche se per il momento il silenzio predomina. Sarkozy ha deciso di seguire le direttive del suo guru di estrema destra, Patrick Buisson, e di andare a caccia di voti estremisti adottandone contenuti e linguaggio. La destra moderata abbassa la testa. Ma questa situazione è destinata ad esplodere l’indomani della prevedibile sconfitta del 6 maggio (ieri tre sondaggi hanno dato Hollande vittorioso, intorno al 54% dei voti).
Dopo la lettera di François Bayrou ai due finalisti, dove il candidato centrista sfortunato non prendeva posizione ma poneva la questione dei «valori», Jean-François Kahn, fondatore del settimanale Marianne entrato recentemente in politica con il MoDem, riprende da Jean-Luc Mélenchon l’accusa di «pétainismo» rivolta all’ultima versione di Sarkozy: «Per la prima volta da mezzo secolo – scrive – un presidente della Repubblica in esercizio ha riattualizzato e quindi legittimato una retorica apertamente pétainista».
Marine Le Pen ha accusato ieri Sarkozy di «scippare» giornalmente le idee del Fronte nazionale. Tutti pensano alle legislative che seguiranno, a giugno, la presidenziale. Dopo che Sarkozy ha affermato che, in caso di ballottaggio al secondo turno tra un socialista e un frontista, l’Ump darà indicazioni di votare «bianco o astenersi», Marine Le Pen ha promesso vendetta il 6 maggio (Hollande ha invece ribadito la tradizione repubblicana, indicando, in caso di assenza di un socialista, un voto per il candidato Ump in caso di scontro con un frontista).
Un appoggio a Sarkozy arriva da Londra: The Economist, che in Francia è stato soprannominato «la Pravda del capitalismo» dal Nouvel Observateur, definisce Hollande «uomo piuttosto pericoloso» e afferma che, se avesse un voto, lo darebbe a Sarkozy «non tanto per i suoi meriti, ma per scartare Hollande». Eppure, nella Ue le idee di Hollande di rinegoziare il Fiscal compact fanno dei passi avanti. Herman van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, ha persino evocato la possibilità di un vertice straordinario dopo la presidenziale francese, per discuterne. Ormai, tutti parlano del necessario stimolo alla crescita. Lo scontro è sul come, tra liberisti che puntano solo alla deregulation e interventisti. Ma anche Hollande non abbandona il risanamento: «La serietà di bilancio, sì – afferma – l’austerità a vita, no». Persino Angela Merkel, che il 6 e il 13 maggio deve affrontare due voti regionali difficili e teme l’isolamento diplomatico in Europa, potrebbe appoggiarsi su Hollande per scaricare i liberali dell’Fdp, rigoristi[ senza voti, per avvicinarsi all’Spd in vista di una Grosse Koalition.
La settimana che manca al secondo turno sarà punteggiata soprattutto da due avvenimenti, otre al meeting di Hollande a Bercy domenica: i cortei e le manifestazioni contrapposte del primo maggio e il duello televisivo tra Hollande e Sarkozy il 2 sera. Giovedì sera, su France 2, c’è già stato un assaggio. Non un dibattito diretto, ma i due candidati sono stati interrogati uno dopo l’altro. Sarkozy ha cercato di attenuare l’aggressività che mostra nei comizi elettorali, ed è arrivato persino a condannare il pessimo gioco di parole di uno dei suoi sul cognome della compagna di Hollande (Valérie Trierweiler, divenata Rottweiler con l’aggiunta: «E non è gentile per il cane»). Ma il presidente uscente ha confermato l’adesione alla posizione di Le Pen di istituire, per i poliziotti, la «presunzione di legittima difesa» (l’attualità è l’incriminazione di un poliziotto, con l’accusa di «omicidio volontario», per aver ucciso un pregiudicato che stava cercando di arrestare, colpendolo con una pallottola alla schiena). Hollande, che si è giustificato per aver detto no ai tre dibattiti frontali chiesti da Sarkozy, ha rifiutato di farsi trascinare in un «pugilato» a distanza, ricordando i principali punti del suo programma.
Tutta l’attenzione si sta concentrando sul primo maggio. Al tradizionale corteo sindacale parteciperà anche il Front de gauche, ha confermato Mélenchon, che si unirà alla manifestazione a fine corteo. La partecipazione politica ai cortei sindacali è diversamente apprezzata dalla confederazioni: la Cgt ha indicato implicitamente di votare Hollande, mentre la Cfdt è perplessa su questo tentativo di «sviare l’obiettivo del primo maggio». Force ouvrière non parteciperà al corteo, critica verso il «marketing politico» di cui sarebbe vittima il primo maggio. Ci sarà, come ormai dall’88, il meeting del Fronte nazionale sotto la statua di Jeanne d’Arc. Ma quest’anno l’Ump organizza una «festa del vero lavoro» alla Tour Eiffel. Sarkozy ha dovuto rimangiarsi l’espressione «vero lavoro», sotto l’accusa di averla ripresa da Pétain, ma ha intenzione di andare alla prova di forza con i sindacati e la sinistra. Martine Aubry ha messo in guardia: «Se ci dovessero essere delle violenze il primo maggio, Sarkozy ne sarà responsabile».

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Italia dei beni comuni

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Oggi il primo appuntamento. Pochi big, molte idee, sette minuti a intervento. Si parla di metodo e programma

«Inizia un percorso». Gli organizzatori si raccomandano di non scrivere molto più di questo. Perché l’appuntamento di oggi a Firenze, la «partenza» del «non partito» – lanciato dal manifesto per i beni comuni e per «un’altra politica nelle forme e nelle passioni» il 29 marzo scorso, e di cui si è discusso, e anche parecchio, sulle pagine del manifesto e sulla rete – è una vera partenza al buio. Si annunciano molti partecipanti, e infatti è stata prenotata una platea da 1500 persone. Ma la giornata di oggi è stata scandita con quattro interventi iniziali, di quattro dei primi firmatari del manifesto, una sorta di relazione introduttiva a quattro voci (Marco Revelli, Nicoletta Pirotta, Claudio Giorno della Val Susa e Paul Ginsborg). In sala sarà distribuito un testo di Luciano Gallino, intitolato provocatoriamente «Come creare un milione di posti di lavoro».
Per il resto, si procede senza rete: sette minuti a intervento, ciascuno degli interventi potrà fare la sua proposta e indicare la direzione verso cui dovrebbe salpare la nave.
Non sono previste special guest: il sindaco De Magistris ha inviato gli auguri ma non ci sarà, Nichi Vendola lo stesso, per impegni di campagna elettorale, ma ci sarà il suo braccio destro Nicola Fratoianni. Ci sarà invece Paolo Ferrero, segretario del Prc. Ma per tutti varrà la regola dei sette minuti.
Di certo è che si discuterà di due prime «discriminanti», come è stato chiaro dai testi ricevuti in questi giorni da chi ha annunciato la propria partecipazione allegando una «motivazione»: il no alla riforma del pareggio in bilancio in costituzione e alla riforma del lavoro in discussione in parlamento. Per il momento sono gli unici due punti fermi di un «programma» che non c’è, ancora (l’assenza di progetto è una delle critiche mosse al non-partito da Rossana Rossanda) ed è tutto da discutere, e scrivere, e approfondire, nella successiva «due giorni» immaginata per giugno.
Il «progetto» sarà il core business della discussione. La differenza fra «bene comune» e «beni comuni», anche: anche perché è fresco di ieri l’intervento con cui Asor Rosa (sul manifesto) rintraccia la «dottrina del bene comune » di Tommaso d’Aquino nel «progetto» del soggetto politico nuovo.
E poi c’è il tema della forma del non-partito, e le questioni di «metodo». Perché il soggetto politico nuovo propone, almeno nelle intenzioni, «un salto di paradigma anche negli strumenti organizzativi», spiega Marco Revelli, «che non possono essere quelli tradizionali – centralistici, verticali e gerarchici – delle burocrazie dominanti, ma che sappiano praticare, all’opposto, l’orizzontalità della rete, la comunicazione decentrata, l’eguaglianza nella parola e nell’ascolto tra diversi. Tutto questo vuol dire, come ci è stato contestato, rimuovere il “conflitto sociale”? Cancellare le “forme di organizzazione” in nome di uno spontaneismo un po’ anarchico? O non significa, piuttosto, ripensare il conflitto – e insieme l’organizzazione – nelle forme in cui ce lo ripropone quello che Gallino ha definito il finanz-capitalismo (che non cancella le classi sociali, ma che le ridisegna in forma del tutto inedita)? D’altra parte, che ne penseremmo se qualcuno, dopo il 1848, avesse continuato a proporre i vecchi club del 1789, come strumenti della lotta politica e la jacquerie contadina come via all’emancipazione?».
Last but not least, la questione del nome. C’è persino chi chiede di andare avanti prima di decidere. Insieme ai criteri per nominare un coordinamento nazionale, anche il nome si decide oggi, verrà scelto dalla platea da una rosa di quattro selezionata sul sito. Sono: Alba, Alleanza lavoro benicomuni ambiente; Lavoro e beni comuni; alternativa democratica; e infine Italia Bene Comune.
Quest’ultimo non passerebbe inosservato. Perché è anche il nome che Bersani ha scelto per la campagna delle amministrative del suo Pd. Facendo per l’occasione stampare migliaia di felpe blu con slogan più tanto di collo e polsini tricolori. Un’appropriazione indebita per il partito che fino all’ultimo non ha voluto schierarsi apertamente con i referendum per l’acqua pubblica, quelli che poi hanno portato al voto 27 milioni di persone. E un partito che ha votato due decreti Monti per le liberalizzazioni che i referendari hanno definito «tentativi sfrontati di negare il risultato di quei referendum». Salvo poi utilizzarne il logo del «bene comune» per marketing elettorale, dopo aver scoperto che funziona, ora che il vento è cambiato.


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mercoledì 25 aprile 2012

Contro ogni retorica - Per un 25 Aprile di lotta

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Il clima di unità nazionale e di sostegno al governo tecnico da parte di Pd, Pdl e Terzo polo prova a nascondere e a reprimere le tensioni crescenti nel paese, e di fascismo non se ne parla più se non malvolentieri. Nel frattempo, gli antifascisti sono processati, come accade a Matteo Parlati e Matteo Pirazzoli, accusati di aver contrastato una manifestazione della Fiamma tricolore che commemorava la marcia su Roma.

Due pesi, due misure, come da tradizione della magistratura italiana: il console picchiatore Vattani è stato riammesso nel servizio diplomatico, per la gioia dei suoi camerati di Casa Pound e del suo amico Alemanno, da anni ormai impegnato a sistemare i propri squadristi nei principali enti e posti di potere di Roma e del Lazio.
Dopo anni di grida e appelli contro il pericolo della dittatura fascista di Berlusconi, gli stessi promotori di quegli stessi appelli, che siano essi del Pd o del popolo viola, sostengono attivamente un governo ferocemente antioperaio e nemico dei precari e dei giovani, e volutamente glissano sull’appoggio insieme al Pdl al governo di unità nazionale di Monti. Per questi rappresentanti degli interessi della borghesia “buona” e “illuminata” il loro 25 aprile è stato il giorno delle dimissioni di Berlusconi.
Per i comunisti quel giorno ha rappresentato l’ennesimo 8 settembre di questo nostro paese, e qui si ferma l’analogia storica: il compromesso tra le varie parti della borghesia e del padronato è scaricato sulle spalle dei giovani e dei lavoratori. Prepariamoci a un 25 aprile politicamente corretto, con vuoti appelli istituzionali all’unità del paese nel momento della crisi. La retorica dei palchi proverà ancora una volta a rimuovere, in un momento in cui le tensioni sociali possono soltanto crescere, la memoria e la storia rivoluzionaria della Resistenza partigiana al nazifascismo, dell’assalto al cielo in difesa della propria terra, della dignità e della libertà di centinaia di migliaia di combattenti.
Il terreno è stato preparato nel corso dei decenni con grande accuratezza, c’è da dire. Prima le celebrazioni negli anni cinquanta-sessanta delle autorità, con vescovi, generali, amministratori tutti con un passato in camicia nera; poi, dal 1968 in poi, il contrasto tra chi vedeva nella Resistenza la rivoluzione mancata, l’occasione persa del riscatto e della costruzione di un nuovo ordine sociale e chi invece dipingeva una lotta per la “democrazia progressiva” o per l’ordine costituzionale assente ; infine, le revisioni e le menzogne di nuovi compromessi, nuovi partiti e pennivendoli di regime, pronti a buttare fango sul sangue versato dai partigiani.
La verità è un’altra: noi non commemoriamo il 25 aprile, lo ricordiamo e lo difendiamo. Difendiamo una memoria fatta di stragi, di violenze, di oppressione, iniziate non l’8 settembre 1943, ma dalla fondazione dei Fasci mussoliniani. Ricordiamo gli assalti alle Case del popolo, alle sezioni comuniste e socialiste, i pestaggi e gli agguati ai lavoratori, le minacce e le devastazioni che da Trieste alla Sicilia videro le camicie nere protagoniste.
Ricordiamo il sacrificio di migliaia di oppositori condannati dal Tribunale speciale, degli esuli perseguitati, di Antonio Gramsci di cui ricorre il 75° anniversario dalla morte sotto la stretta sorveglianza fascista e la cui memoria è puntualmente sotto attacco da parte di qualche intellettuale alla moda, coccolato dai media borghesi.
La Resistenza non è stata la prosecuzione di un Risorgimento idealizzato e liberale, monarchico e d’ordine (e anche su questo ci sarebbe da discutere), ma un movimento rivoluzionario degli sfruttati, non solo sulle montagne e nel Settentrione, ma anche nel Mezzogiorno e nelle città. Gli scioperi del marzo ’43, le agitazioni operaie e per la terra nel breve periodo tra il 25 luglio e l’8 settembre, le quattro giornate di Napoli e le attività della Resistenza romana sono solo alcune delle pagine scritte dal movimento operaio, partigiano, assieme alla lotta senza quartiere delle formazioni di “ribelli” nelle regioni settentrionali occupate dai nazisti e dai loro alleati.
E il fascismo può attecchire oggi anche per l’opera sistematica di svuotamento e di mummificazione della Resistenza, attuata a destra e a sinistra: il revisionismo promosso a piene mani sulla stampa e dalle forze politiche; l’istituzione di giornate della memoria come quella del 10 febbraio sulle foibe e la costante rimozione degli “elementi di divisione” dalla politica italiana, ovvero la differenza tra chi ha combattuto per la libertà e per un mondo di giustizia e tra chi deportava e ammazzava.
La crisi economica in Europa vede i tentativi di forze di estrema destra e apertamente fasciste di radicarsi tra i lavoratori e il sottoproletario, con programmi razzisti e una generica retorica contro le banche e la finanza. Casa Pound è solo l’espressione italiana di un processo generale in Europa, tollerato dalle forze dell’ordine e lasciato crescere con la complicità e la contiguità del Pdl, che spesso ha ospitato (a Napoli, a Roma, a Firenze) i fascisti del terzo millennio nelle sue liste elettorali. Da un lato, slogan contro le banche, dall’altro, al servizio diretto del padronato: ecco la realtà del fascismo di ieri ed oggi, con le sue bande sempre pronte ad aggredire militanti di sinistra, immigrati e omosessuali.
L’eredità della lotta partigiana è nelle battaglie di questi giorni e non nei vuoti appelli in difesa della Costituzione: nella resistenza alla Tav, nelle mobilitazioni operaie a difesa dell’articolo 18 e del lavoro, nella quotidiana costruzione di un’alternativa complessiva a questo sistema votato alla distruzione e alla repressione.
La nostra resistenza, ieri come oggi, continua nella lotta per la liberazione dell’umanità dallo sfruttamento capitalistico, per il socialismo.

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martedì 17 aprile 2012

Forestazione, il 24 aprile sciopero generale

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Gli addetti chiedono il rispetto dell'accordo
su 151 giornate e turn over

Come preannunciato nei giorni scorsi il comparto forestale si ferma. C'è il rischio che i cantieri non partanoLo sciopero generale degli oltre 4 mila lavoratori forestali della Basilicata, preannunciato nei giorni scorsi, si terrà martedì 24 aprile. Lo hanno annunciato giovedì 12 aprile i segretari regionali di Fai-Cisl, Flai-Cgil e Uila-Uil, Antonio Lapadula, Vincenzo Esposito e Gerardo Nardiello. Nello stesso giorno si terrà una manifestazione davanti alla sede della Regione Basilicata. Alla base dello sciopero il mancato rispetto dell'accordo del 2009 sulle 151 giornate e sullo sblocco del turn-over e i gravi ritardi che si stanno registrando nell'avvio dei cantieri forestali per effetto della riforma della governance regionale che ha trasferito le competenze alle aree programma.

“Se prima eravamo preoccupati – spiegano i tre dirigenti sindacali – ora possiamo dire di essere seriamente allarmati perché il rischio che i cantieri non partano e i lavoratori restino senza salario si fa sempre più concreto. Il ricorso alla sciopero generale è la necessaria conseguenza della perdurante inazione del governo regionale che sulla forestazione ha tenuto un atteggiamento ondivago e superficiale. Le notizie che ci arrivano dai Comuni capofila delle aree programma, che saranno chiamati a gestire operativamente i cantieri, sono drammatiche. Senza la preventiva approvazione dei bilanci comunali, cosa che non avverrà prima di giugno, le amministrazioni capofila non sono nelle condizioni di far partire le assunzioni e quindi i cantieri. E questo a pochi giorni dal teorico avvio della stagione forestale”.

Per Lapadula, Esposito e Nardiello “la Regione male ha fatto a sottovalutare i reiterati richiami del sindacato sulle difficoltà che sarebbe certamente insorte con il passaggio delle competenze dalle comunità montane alle aree programma. Purtroppo le nostre previsioni sono state fin troppo ottimistiche se consideriamo che l'intero settore vive una condizione di totale paralisi che preoccupa giustamente i lavoratori”.

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venerdì 6 aprile 2012

Licenziamenti, sfruttamento e ricatto: ecco la “riforma” del lavoro

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Scritto da Paolo Grassi   
Venerdì 23 Marzo 2012 16:36
Chiusa la trattativa giovedi 22 marzo, il governo con l'appoggio di Confindustria e i soliti sindacati compiacenti, Cisl e Uil, si avvia a portare in parlamento una nuova controriforma. Dopo tanti tentativi i padroni stanno per raggiungere la tanto agognata meta: cancellare il fatidico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Non c'era riuscito Berlusconi nonostante i tanti tentativi in questi ultimi 10 anni, ci riesce invece il governo sostenuto dal Pdl ma soprattutto dal Partito democratico. Festeggia Marchionne, esulta Caprotti, padrone di Esselunga che solo negli ultimi cinque mesi ha espulso 25 lavoratori colpevoli di aver aderito a degli scioperi ed essersi iscritti a un sindacato a lui non gradito, esulta il padronato perché sempre di più si sente sicuro di poter instaurare il terrore nelle fabbriche.

La nuova controriforma del lavoro vede alla fine il No della Cgil.
Dopo settimane di inutili ed estenuanti trattative la segretaria della Cgil Susanna Camusso ha dovuto dichiarare la propria contrarietà al pacchetto preparato dal governo. Non era scontato. Meglio tardi che mai.

Il no della Cgil

Cosa non scontata per molte ragioni. La prima è la campagna mediatica che da tempo governo e padroni stanno mettendo in campo descrivendo chi accede alla cassa integrazione o allo Statuto dei lavoratori come dei privilegiati difesi da una lobby (i sindacati) che impedisce a milioni di giovani di inserirsi nel mondo del lavoro. In secondo luogo perché non avendo mai, in primis la Cgil, voluto farsi carico di una seria battaglia per estendere articolo 18, ammortizzatori sociali anche alle piccole aziende e in tutte le categorie, oggi il padronato punta in particolare su questa disparità di diritti per dividere i lavoratori. Cosa che ha già seriamente dimostrato di voler fare tenendo, per ora, fuori i lavoratori dell'impiego pubblico da questa controriforma.

Sembra quindi che ci si prepari a dar battaglia. Nel direttivo della Cgil che è seguito alla rottura con Monti sono state prese decisioni importanti. Uno sciopero generale di 8 ore, altre 8 da decidere a livello territoriale, una campagna massiccia di assemblee informative, una campagna raccolta firme per demistificare la campagna del governo, manifestazioni sotto i palazzi del governo.

Sicuramente iniziative di lotta non ancora sufficienti per respingere l'attacco in corso, vista la portata dello scontro, ma comunque un inizio più incoraggiante del penoso sciopero di tre ore dello scorso dicembre contro quella che è stata definita dalla stessa Cgil come la peggiore controriforma delle pensioni della storia. Sciopero che vide una scarsissima partecipazione dei lavoratori perché palesemente inutile.
L'unità nazionale sotto il caminetto
Il problema quindi che si pone ora, preso atto che almeno nelle intenzioni il gruppo dirigente della Cgil è disposto a lottare, è capire come creare le condizioni a noi più favorevoli per la mobilitazione.
La prima questione quindi è chiarire per cosa lottiamo.
Lottiamo per convincere Monti a riaprire il tavolo?
Lottiamo perché le impetuose mobilitazioni che speriamo di suscitare permettano al Partito democratico in parlamento di abbellire la controriforma?
Oppure lottiamo perché questa controriforma è irricevibile e va rispedita al mittente?
Tutta la controriforma è costruita su tre assi portanti: peggiorare le condizioni di lavoro, aumentare la ricattabilità e pagare alle banche gli interessi sul debito risparmiando sugli ammortizzatori.

Articolo 18: il licenziamento viene considerato discriminatorio e quindi nullo se determinato da ragioni di credo politico, religioso o per la partecipazione all'attività sindacale. Il problema pero' è che mai nessun padrone, a meno che non sia particolarmente stupido, motiverà un licenziamento con uno di questi argomenti. Per tutti gli altri licenziamenti, disciplinare o per motivi economici (non solo perché l'azienda è in crisi) nel caso non sussista la giusta causa comunque il lavoratore non sarà reintegrato ma riceverà un indennità stimata tra le 15 e le 27 mensilità.

Precarietà: vengono confermate tutte le tipologie vergognose partorite in questi anni. Semplicemente si millanta una azione di controllo più puntuale, in particolare per i contratti a progetto e le partite Iva. Ci concedono quanto già la legge dovrebbe garantire. Ci assicurano che il lavoro precario costerà di più di quello a tempo indeterminato, ben l'1,4%, una miseria. Intanto aumentano l'aliquota dei lavoratori a progetto, che ovviamente i padroni scaricheranno sulle retribuzioni dei lavoratori, si apre definitivamente la strada all'apprendistato. Ovvero contratti precari che durano dai 3 ai 5 anni e che permetteranno ai padroni di pagare poco i lavoratori ricattati e quasi nulla di contributi.

Ammortizzatori sociali: viene abrogata la Cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività e la mobilità. Se prima tra Cassa integrazione e mobilità un lavoratore riusciva a mantenere un minimo di copertura economica che variava dai tre ai cinque anni, oggi la copertura sarà al massimo di dodici mesi fino a un massimo di diciotto per quelli con più di 55 anni. Alla base del nuovo sistema di sostegno al reddito ci sarà l'Aspi. Dicono che si passa al sistema universale, non è vero. Per accedervi bisogna aver lavorato almeno 52 settimane negli ultimi due anni. I precari e i disoccupati che lavorano meno di un anno su due non avranno nulla. Anche l'assegno viene significativamente ridimensionato. Di fatto si risparmia sugli ammortizzatori, visto che la platea rimarrà la stessa se non più ampia ma i soldi saranno meno. Contro gli 8 miliardi di euro spesi in un  anno ora sul tavolo ce ne sono 1,7.

Per cosa dobbiamo lottare
Un vero proprio massacro. Ma proprio perché la posta in gioco è alta adeguata deve essere la risposta e le rivendicazioni con cui costruirla.
Come si fa a coinvolgere la maggioranza dei lavoratori l’articolo 18 già non esiste nelle aziende sotto i 15 dipendenti?
Come si fa a difendere gli ammortizzatori e un assegno di disoccupazione adeguato, cosa che quello attuale non è, se chi ha un contratto a progetto o una finta partita Iva non vi può accede? E soprattutto; contrastiamo questa “riforma” per difendere l'attuale sistema legislativo sul precariato, su cui si basa il ricatto in cui vivono milioni di lavoratori?
Questo problema la maggioranza della Cgil non se lo pone. Anzi nel direttivo nazionale tenutosi il 21 marzo l'indicazione che è emersa nel documento finale è stata che si lotta per modificare in parlamento un testo di legge che comunque ha, sulla precarietà, ottenuto miglioramenti. Documento che anche sull'articolo 18 mantiene una certa ambiguità. Non per nulla il segretario della Fiom aveva proposto una formulazione semplice quanto chiara: sull'articolo 18 non si tratta. Emendamento bocciato dalla maggioranza. Per questo motivo Landini e La Cgil che vogliamo si sono astenuti e Cremaschi ha votato contro.
Non si può pensare di chiamare i lavoratori alla battaglia campale  per chiedere di modificare comunque in peggio l'articolo 18. Magari sposando la proposta del PD di assumere il modello tedesco dove comunque è il giudice che ha l'ultima parola su reintegro o indennizzo.
La disponibilità alla mobilitazione c'è, la manifestazione con sciopero generale della Fiom il 9 marzo lo dimostra. Si è toccato con mano la determinazione degli operai.
La disponibilità si registra anche nei tanti scioperi aziendali convocati in questi giorni. Ce lo mostra la grossa difficoltà che hanno Cisl e Uil. Un caso su tutti la Magneti Marelli di Bologna, fabbrica salita alle cronache per l'espulsione della Fiom dalla fabbrica da Marchionne, dove i delegati di Fim e Uilm sono stati costretti a convocare lo sciopero.
Quello che deve essere chiaro è che non ci si possiamo permettere una mobilitazione che abbia come fine quello di dimostrare che per fare le controriforme ci voglia anche la mediazione con la Cgil.
Questa lotta deve avere come obiettivo quello di fermare i piani padronali, ovvero il ritiro della “riforma”. Che nella sostanza significa la caduta del governo.
Per fare ciò serve una mobilitazione generale vera come da tempo non vediamo. Serve il protagonismo in prima fila dei lavoratori, oggi questo è possibile a patto che l'iniziativa non venga lasciata in mano ai vertici sindacali.


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giovedì 5 aprile 2012

UNIAMO L'OPPOSIZIONE DI SINISTRA AL GOVERNO MONTI COSTRUIAMO L'ALTERNATIVA ALLE SUE POLITICHE LIBERISTE

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Il governo Monti aggrava la crisi, ne scarica gli effetti sui soggetti più deboli e corrompe la democrazia. Questo governo, nato senza mandato da parte degli elettori e appoggiato da una grande coalizione che va dalla destra berlusconiana al PD, è il frutto dei diktat e delle fallimentari ricette di poteri economici e finanziari, come la Bce, la Commissione Europea, l’Fmi, che scavalcano la volontà dei popoli e le istituzioni rappresentative.

La manovra economica di dicembre, contrassegnata su tutto da un aumento della pressione fiscale generalizzato e senza criteri di progressività, dall’innalzamento dell’età pensionabile, dal taglio alle prestazioni previdenziali, dai nuovi tagli agli enti locali e alla spesa per il sociale, ha evitato di introdurre una tassa sui grandi patrimoni, di tagliare gli sprechi miliardari come la Tav in Val di Susa o l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35, di ridurre i costi della politica, al fine di investire in creazione di posti di lavoro e nella riconversione in senso ecosostenibile dell’economia italiana.

Ora il governo si appresta a una riforma del mercato del lavoro che non colpisce la precarietà sia sul piano legislativo che fiscale, che riduce la durata degli ammortizzatori sociali in caso di perdita del lavoro, e che manomette l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori allo scopo di agevolare il padronato nella facoltà di licenziare e di annichilire gli spazi di agibilità sindacale e politica nei luoghi di lavoro.

Tuttavia, pur registrando una palese crisi di consensi, l’esecutivo non ha ancora un’adeguata opposizione nel paese. Esistono brani di resistenza nel mondo della sinistra d’alternativa, del sindacato, dell’associazionismo, della scuola, e dei movimenti sociali e territoriali. Ma al contempo, anche nell’area vasta che si oppone al governo, si fatica a ridurre la frammentazione dei soggetti in campo e crescono i segnali di sfiducia nelle forme politiche democratiche, a partire da partiti.

Per queste ragioni la Federazione della Sinistra che in questi mesi, in coerenza con la propria vocazione unitaria, ha animato e sostenuto su tutto il territorio nazionale centinaia di iniziative di opposizione alle politiche del governo, promuove per il 12 Maggio 2012 a Roma un appuntamento nazionale di mobilitazione che proponiamo di condividere con tutte le soggettività politiche e sociali, collettive ed individuali, che condividono la necessità e l'urgenza di un'alternativa a tali sciagurate politiche.

Un'alternativa basata su:
·giustizia sociale, difesa dei diritti sociali e del lavoro e redistribuzione delle ricchezze,
·riconversione ecologica dell'economia con un grande piano di investimenti pubblici per il lavoro stabile e di qualità
·rilancio della democrazia, basato sull'ampliamento della democrazia partecipata e sul superamento del bipolarismo attraverso un sistema elettorale proporzionale.

CONTRO IL GOVERNO MONTI:
Giustizia sociale, Lavoro, Democrazia!
12 Maggio 2012 - ore 14 
ROMA, Piazza Santi Apostoli  
Manifestazione nazionale unitaria
promossa dalla Federazione della Sinistra
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