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mercoledì 29 febbraio 2012

Un poliziotto l’ha incalzato sul traliccio, Luca è salito più su»

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Preoccupazione per 15 ragazzi che si erano barricati nella baita in Val Clarea. A sera l’accordo: «Noi usciamo, ma non sarà abbattuta». Vedremo se è vero
Non avevamo capito quanto fossimo preziosi, noi cittadini che ci opponiamo all’alta velocità. Ieri mattina si è verificato il primo atto di una nuova strategia, basata sul pieno utilizzo anche delle nostre risorse umane. La Tav potrebbe infatti essere costruita coi nostri corpi, passandoci letteralmente sopra. Violentando quindi non solo la Val Susa, oltre che ogni normale regola di buon senso, ma noi tutti: passando sui corpi dei valsusini e di tutti coloro che opponendosi a quest’operazione militare – che ormai nulla ha più a che vedere con un cantiere – verranno calpestati non solo nei diritti, ma anche di fatto, nel fisico e nell’incolumità. E’ una nuova fase, di cui abbiamo avuto chiara dimostrazione in questi giorni e soprattutto ieri, 27 febbraio.
Ieri notte è avvenuto un blitz militare per l’allargamento del cantiere in Valle Clarea, nei pressi di Giaglione. Un gran numero di forze dell’ordine, militari, ruspe, mezzi blindati, saliti anche mentre sabato 80.000 persone manifestavano pacificamente contro quest’opera assurda, inutile, dannosa, costosa. Invano.
La cieca convinzione di portare avanti un allargamento del non-cantiere ha visto l’opposizione nonviolenta dei pochi ragazzi che erano presenti sul posto. La grande mobilitazione del movimento NoTav sarebbe infatti dovuta avvenire – dopo la manifestazione di sabato – nuovamente la notte fra lunedì e martedì, con una fiaccolata notturna ed una permanenza sul posto ad oltranza. Gli anziani della valle erano disposti ad incatenarsi agli alberi, ad oltranza. Non essendo un segreto, gli «invasori» hanno deciso di forzare i tempi.
Luca Abbà, 37 anni, agricoltore della Valsusa, molto conosciuto in valle per la sua fiera ma nonviolenta opposione alla Tav, si è arrampicato allora su un traliccio per provare ad opporsi alla cieca determinazione degli invasori. Sentivamo la diretta della sua voce alla radio del movimento (Radio Black-Out). Diceva, rivolto a quelli di sotto: «se non la piantate, io da quassù non me ne vado, avete capito?». Poi, rivolto agli ascoltatori: «ciao, vi saluto, un poliziotto-rocciatore mi sta incalzando da sotto».
Un «invasore» si stava infatti arrampicando a sua volta, spingendolo a salire più in alto. E’ rimasto folgorato dall’alta tensione. Sotto il traliccio non era stata posta alcuna protezione. Avevano molta fretta, si vede. Luca è caduto a terra con un volo di molti metri. Le sue condizioni sono apparse subito gravissime. I soccorsi, frenati dai blocchi delle forze dell’ordine, hanno tardato molto ad arrivare. Alla fine è stato soccorso, intubato e trasportato all’ospedale Cto di Torino.
Nemmeno dopo la caduta di Luca c’è stato uno stop nei lavori. In spregio ad ogni norma di sicurezza e di prudenza, oltre che di rispetto. Che tipo di cantiere è quello in cui non si fermano i lavori in caso di grave incidente?
Luca è grave e le responsabilità sono da attribuire esclusivamente a chi ha ordinato ed eseguito il blitz, mettendo a repentaglio la vita delle persone. Luca è all’ospedale a Torino. Muove le gambe, è cosciente e orientato, ha una sospetta lesione interna con versamento, emorragia interna, ustioni di secondo grado, danni non immediatamente valutabili da folgorazione. E’ in terapia intensiva e le notizie lo danno comunque in prognosi riservata, ma non in pericolo di vita.
Luca è un agricoltore di Cels, dove da diversi anni è tornato a coltivare la terra. Abbà ha iniziato da tempo la sua battaglia contro l’alta velocità, diventando in breve tempo il leader del Comitato No Tav Alta Valle. I famigliari, gli amici, i conoscenti, tutti quelli che con lui hanno dato vita a questa lotta per tutelare il proprio territorio sono rimasti sconvolti dalla notizia e sono corsiin ospedale, davanti al quale questa notte vi sarà una veglia di solidarietà.
La Valsusa è in rivolta, le comunicazioni stradali e autostradali sono completamente bloccate. Tutta l’Italia civile si sta mobilitando in solidarietà a Luca ed ai resistenti NoTav.
Nel frattempo, nella Baita in Val Clarea a ridosso del «non-cantiere» in fase di allargamento, quindici ragazzi resistenti si sono chiusi dentro per impedirne l’abbattimento con le ruspe. In serata, dopo un pomeriggio di trattative, l’accordo: sono usciti, ma la baita (promette lo stato) non sarà abbattuta. Questo blitz militare è stato l’esempio di come s’intende la democrazia da parte dei propugnatori del Tav: senza copertura legale, militarmente, disprezzando la vita umana. A tutti i cittadini che in queste ore si oppongono con ogni mezzo a questa barbarie, raccomandiamo la massima prudenza, dato che la nuova direttiva Tav appare chiara: passeranno sui nostri corpi. 
(Massimo Zucchetti è ordinario al Politecnico di Torino)

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Quel «confronto» sul lavoro che non è mai partito

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In Italia i salari più bassi d’Europa, ma il governo punta ancora sulla riduzione delle tutele
Fosse stato discusso nel momento della pubblicazione (metà ottobre 2011), probabilmente la discussione sulle «priorità» del governo chiamato a sostituire Berlusconi avrebbe preso un’altra piega. Fatto sta che, in Italia, del rapporto Eurostat dedicato al Labour Market Statitics se ne discute soltanto oggi, in pieno «confronto» – si fa per dire – sulla «riforma del mercato del lavoro».
Si è così «scoperto» che i lavoratori italiani, di qualsiasi categoria, prendevano nel 2009 molto meno di tutti i colleghi della zona euro. Portogallo a parte. I greci, da allora, sono precipitati in classifica, ma l’esser stati comunque penultimi avrebbe dovuto far mettere al centro questa emergenza, non l’art. 18. Tanto più che persino in paesi dove il salario è più sostanzioso (e i prezzi al mercato inferiori) – come Francia e la rigorosissima Germania – avevano avuto in quattro anni una crescita nominale degli stipendi (10 e 6,2%) decisamente superiore alla nostra (3,3). In serata palazzo Chigi ha cercato di smentire, invocando una nota chiarificatrice dell’Istat. Ma sembra difficile che si possa parlare di «errori» da parte di Eurostat.
Oggi, invece, il ministro del lavoro – Elsa Fornero – usa questi dati per sostenere che bisogna «scardinare» il gap tra il pessimo salario netto in busta paga e l’alto costo del lavoro. Un mistero non glorioso: la tassazione sul lavoro dipendente è la più alta d’Europa. Solo che le misure proposte dal governo per «ripristinare l’equità» in un mercato del lavoro «imbarbarito», con anziani garantiti che guadagnano pochissimo e giovani precari che prendono molto di meno, sembrano pensate per spingere tutti ancora più in basso. L’abolizione delle residue tutele dei dipendenti, infatti, non può che giocare a favore di un drastico deprezzamento della forza-lavoro, vista l’enorme estensione della massa di disoccupati o «mal occupati».
Giovedì ci sarà il prossimo round tra il governo e le parti sociali, ma ancora nulla di «nero su bianco» è stato messo sul tavolo. Una condizione surreale che costringe tutti – anche la stampa – a correr dietro alle «indiscrezioni» invece che ai fatti. È in queste condizioni anche il sindacato, specie se incerto sulla posizione da tenere. Ieri il Direttivo nazionale della Cgil si èritrovato d’accordo nel definire come obiettivo della possibile «intesa» la riduzione della precarietà e l’estensione degli ammortizzatori sociali «con il criterio di universalità». Così come ha ribadito l’intangibilità dell’art. 18 come «deterrente», anche perché «è falso che si tratti di una particolarità del nostro paese rispetto all’Europa».
Per «coinvolgere pienamente l’insieme delle strutture» di un sindacato con quasi 6 milioni di iscritti, la Cgil ha convocato per il 5 marzo l’Assemblea straordinaria delle camere del lavoro.
Rispetto alle recenti riunioni, la discussione nel Direttivo è stata più distesa. Il governo non sembra al momento capace di offrire appigli per arrivare a un «accordo condiviso» con tutte le parti sociali. Come ha sintetizzato il segretario generale Susanna Camusso, all’uscita, «è nostro obiettivo e nostra intenzione fare un accordo per riformare seriamente» il mercato dellavoro, partendo dalle tre priorità: «ridurre la precarietà, allargare le tutele e mantenere i diritti». Chiedendo anche il ritiro del decreto sul lavoro interinale, incredibilmente varato dal governo al di fuori del «confronto» in corso.
Obiettivi che l’area «La Cgil che vogliamo» ha chiesto di considerare «indisponibli» al confronto col governo, e da appoggiare – per farsi capire bene – con una mobilitazione generale del sindacato. Che per ora non c’è.
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domenica 26 febbraio 2012

NON TAV STREPITOSO SUCCESSO DEL CORTEO A SUSA

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Un grandissimo corteo per dire ancora un “No” alla Tav e per mettere in piazza l’abbraccio solidale agli arrestati. 8 chilometri di slogan da Bussoleno fino a Susa aperti da un carro di carnevale con una piovra gigante e diversi personaggi, dedicato alla Bce e alla finanza globale. Subito dietro il cartello “Amici e parenti No Tav”, accompagnato dalle foto degli arrestati. Dal palco annunciano non meno di settancinquemila partecipanti.
No Tav, Comunità Montana e amministrazioni valsusine di centro-sinistra, fatta eccezione per i Comuni di Villardora e Sant'Antonino di Susa, però, stavolta sono riusciti ad attrarre anche tanta partecipazione da tutta Italia (pullman da Roma, Bergamo, Milano, Perugia). Innanzitutto, per il risultato politico dell’unità nonostante la campagna dei mass media, il tentativo del Pd di ritirare le tessere ai “dissidenti” e l’azione repressiva della magistratura. E poi perché lanciano un chiaro segnale di ripartenza in un momento in cui tutta l’Italia guarda alla mobilitazione del 9 marzo come l’inizio di un percorso antiliberista. Per Alberto Perino, uno dei leader del movimento “No Tav”, “dobbiamo continuare a dire no alla Tav e non fermarci mai".
Nel serpentone anche diverse bandiere di partiti (Verdi, Rifondazione Comunista, Sel, Comunisti Italiani, Movimento 5 Stelle) e di varie associazioni.
Il “legal team” del Movimento No Tav, intanto, annuncia che impugnerà gli eventuali espropri dei terreni nella zona del cantiere in località La Maddalena di Chiomonte (Torino) se questi verranno effettuati soltanto mediante un'ordinanza prefettizia. “Porteremo il provvedimento davanti al Tar del Piemonte - sostengono gli avvocati - per violazione dell'art.2 del testo unico sulla pubblica sicurezza, in quanto non vi è alcuna urgenza e vi sono altri strumenti per provvedere a espropriare i terreni in maniera corretta”. Il Governo, infatti, vuole occupare militarmente la valle. Su questo passaggio paradossale, il commento del sindaco di Napoli De Magistris è molto netto: "Non è un buon segnale, testimonia un rischio inaccettabile per uno stato democratico: la criminalizzazione del dissenso e del movimento per via giudiziaria, la volontà di trasformare un confronto politico in conflitto muscolare fra Stato, governo e cittadine e cittadini. Un rischio che coinvolge tutto il paese perchè riguarda tutti i movimenti nati a difesa del territorio come bene comune: dal No dal Molin passando all'opposizione verso le discariche per finire al rifiuto del ponte sullo Stretto". «I movimenti - aggiunge il sindaco che non essendo presente ha fatto arrivare ugualmente la sua solidarietà - non si arrestano perchè non si criminalizzano. Si ascoltano e soprattutto si consultano. Senza condivisione, non si procede".
“La presenza di così tanta gente al corteo è la migliore risposta a chi vuole trasformare il movimento No Tav in un problema di ordine pubblico”, dice Paolo Ferrero, leader di Rifondazione Comunista. “Il movimento - ha aggiunto Ferrero - ha le sue ragioni e continua a sostenerle”. Tra gli altri anche il segretario della Fiom Maurizio Landini. “La Fiom è da sempre parte di questo movimento, perchè i nostri valori si incrociano con le battaglie di questo territorio che hanno respiro più ampio perchè pongono il problema di un modello diverso di sostenibilità ambientale”, ha detto, marciando alla testa al corteo del Movimento No Tav. “Servono - ha aggiunto Landini - nuove politiche per difendere l'occupazione e cambiare modello di sviluppo. Per queste ragioni abbiamo proclamato lo sciopero generale del prossimo 9 marzo a Roma”.

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venerdì 24 febbraio 2012

Melfi, accolto ricorso reintegrati lavoratori stabilimento Fiat

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 Descrizione: http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/images/sezione.gif

MELFI - La Corte di appello di Potenza ha accolto ieri, in secondo grado, il ricorso della Fiom contro il licenziamento di Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, i tre operai della Sata di San Nicola di Melfi, licenziati nell’agosto del 2010 dalla Fiat, perché accusati di aver ostacolato le produzioni bloccando alcuni carrelli mentre era in corso un corteo interno. La decisione in appello, ha così ribaltato la sentenza emessa a luglio nel Palazzo di giustizia di Melfi (favorevole al Lingotto), ordinando alla Fiat di reintegrare nello stabilimento i tre lavoratori (due dei quali delegati Fiom).

Ma per Lamorte, Barozzino e Pignatelli la battaglia non - ancora finita, perché la Fiat ha annunciato che ricorrerà in Cassazione, «considerando inaccettabili comportamenti come quelli dei tre lavoratori. Per questo - continua l’azienda - proseguiremo le azioni per impedire che simili condotte si ripetano». I tre operai, ricordiamo, dopo che una prima sentenza del Tribunale di Melfi, nel settembre del 2010, aveva giudicato antisindacale il licenziamento da parte della Fiat, erano tornati in fabbrica, ma l’azienda li aveva confinati in una saletta a parte, dove avrebbero potuto svolgere solo attività sindacale. Circa un anno dopo, a luglio del 2011, un secondo giudice del lavoro del Tribunale di Melfi aveva accolto, dopo sei udienze, il ricorso presentato dalla Fiat contro il decreto di reintegra, e la Sata aveva mandato a casa i tre operai, che si erano trovati così senza lavoro e privati del salario. La decisione della Corte di appello di Potenza, a questo punto, cambia nuovamente lo scenario: e gli operai riacquistano il diritto di tornare in fabbrica e di percepire il salario. «È soltanto questo che vogliamo: tornare a lavorare, dopo un bruttissimo periodo», dicono i tre lavoratori. «Questa sentenza conferma l’antisindacalità del comportamento della Fiat», spiega il legale della Fiom, Franco Focareta. A sostegno dei tre operai, interviene anche Nichi Vendola, che su twitter dice: «Oggi - un bel giorno per Giovanni, Antonio, Marco e anche per noi. Anche alla Fiat di Melfi - stato riconosciuto che il lavoro ha la sua dignità».

«Malgrado Marchionne - commenta Oliviero Diliberto, segretario nazionale Pdci-Federazione della Sinistra - abbia cacciato la Fiom Cgil dagli stabilimenti Fiat, malgrado le impedisca ogni trattativa sindacale, nella fabbrica ha vinto la giustizia. Dovrebbero far tesoro dell’odissea di questi operai, tutti quelli che oggi attaccano l’«articolo 18». La Fiom lucana, intanto, esprime «soddisfazione per il dispositivo della Corte di Appello di Potenza, che ribalta il giudizio di primo grado e, dopo quasi due anni, reintegra al lavoro Barozzino, Lamorte e Pignatelli».

«La sentenza - un atto di giustizia in una vicenda che ha segnato una fase di acuta tensione tra azienda e lavoratori», commenta il consigliere regionale lucano, Rocco Vita (Psi), mentre per il coordinatore lucano di Sel, Carlo Petrone, e per il consigliere regionale Giannino Romaniello (Sel), si tratta «di una decisione che ripristina il sacrosanto diritto al lavoro, il rispetto del diritto di sciopero e la dignità dei lavoratori».

Per Alessandro Genovesi, segretario della Cgil Basilicata, «la sentenza dice in maniera inequivocabile che, in uno stato di diritto, nessuna fabbrica - una zona franca e che tutti, si chiamino Marchione o il signor Rossi, devono rispettare le regole della democratica convivenza». Antonio Pepe, della Cgil lucana, evidenzia che «è stata ristabilita finalmente la verità: quella notte non ci fu nessun sabotaggio».


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lunedì 20 febbraio 2012

ARTICOLO 18, PD SPACCATO. SI APRE LA PROSPETTIVA DI NUOVE MAGGIORANZE

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Nel Pd è scontro aperto sull’Articolo 18. Dopo l’intervista di Repubblica a Walter Veltroni, che ha invitato a “superare il tabù”, arriva la risposta di Stefano Fassina che l’accusa di “stare con il Pd”. Il governo Monti non è quello di Pier Luigi Bersani perchè “non farà il 100 per cento di quello che faremmo noi”, dice il responsabile Lavoro del Pd. Walter Veltroni, invece, sta a suo agio con i professori e anche su quella che si annuncia la madre delle battaglie, l'Articolo 18, sembra più vicino al ministro Fornero che alla posizione del Pd. Parole di netta contrapposizione che aprono la strada ad una clamorosa “scissione” parlamentare qualora non si trovasse l’accordo tra le parti sociali e si dovesse consolidare la prospettiva di un rinvio alle Camere. La partita che si gioca, tuttavia, riguarda anche lo stesso assetto della maggioranza. Le critiche di alludono ai sospetti dentro il Pd su manovre per una “Grosse Koalition” dopo il governo dei cosiddetti tecnici. Tesi che trova d'accordo anche il vicesegretario Enrico Letta, per il quale “non dobbiamo cedere Monti alla destra”. L'attacco del responsabile economico provoca una reazione in difesa di Veltroni anche da parte di chi non condivide le proposte nel merito. A parte il “veltroniano” Walter Verini, che dà a Fassina dell'intollerante, anche Marina Sereni e Dario Ginefra invitano a rispettare le posizioni di tutti “perchè il Pd è un grande partito dove ci si confronta senza scomuniche”. Cesare Damiano, strenuo difensore dell'articolo 18, prende le distanze dal merito della tesi di Veltroni ma è attento a precisare che ognuno “può esprimere le sue libere opinioni, al di là degli orientamenti largamente prevalenti nel partito, dei quali pure occorrerebbe tenere conto”. “La mia è una valutazione di merito – dice l’ex ministro del Lavoro -: in primo luogo, dobbiamo affidare alla trattativa tra governo e parti sociali il compito di trovare una soluzione condivisa ed unitaria”. “Se questo non avvenisse avremmo seri problemi politici nei passaggi parlamentari – aggiunge -. In secondo luogo, bisogna comprendere che il combinato disposto, superamento della cassa integrazione straordinaria e dell'articolo 18, creerebbe una situazione occupazionale insostenibile e socialmente esplosiva”. “Insistere su questo punto – conclude - non vuol dire, a mio avviso, sostenere una posizione riformista, ma al contrario accettare di portare in Europa, dopo quello delle pensioni, anche lo scalpo del mercato del lavoro come condizione per il risanamento del paese. Noi vorremmo, invece, accanto al rigore anche maggiore equità nelle riforme”. Infine, la dura reazione di Sergio Cofferati, che si trovò pochi mesi fa a dover difendere Fassina da parte dell’ala “liberal” del Pd, che ne chiese le dimissione da responsabile del Lavoro. “La posizione di Veltroni è sbagliata e ha fatto bene Fassina a ricordarglielo”, ha detto l’ex segretario generale della Cgil. “La nostra condizione economica è grave, siamo in recessione e c'è una sottovalutazione di quanto ci aspetta che mi preoccupa moltissimo. L'articolo 18 va lasciato così com'è, non capisco perché mettervi mano. Poi ho letto della volontà di cancellazione della cassa integrazione straordinaria. È una drammatizzazione del dramma, quando avremmo bisogno di protezione”.
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Melfi, la verità degli operai

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Dipendenti malati di tumore spostati in reparti pericolosi. Come ritorsione per aver difeso i colleghi licenziati. E' l'accusa che viene dallo stabilimento Fiat in Basilicata. Dove si parla anche di ricatti e minacce da parte dei 'preposti aziendali'. E spunta un audio registrato di nascosto, dove un caporeparto ammette le discriminazioni politiche
Comincia tutto con un flash. Davanti alla macchina fotografica ci sono gli operai con le magliette rosse Sata, il direttore sta nel mezzo e tiene le braccia conserte sul doppiopetto. Sulla sinistra si vede una vecchia Punto, col numero uno sul parabrezza, al lato opposto c'è la nuova Punto. Era il maggio del 2010, e allo stabilimento Fiat Sata di Melfi si raggiungeva il traguardo dei cinque milioni di auto prodotte, che faceva della fabbrica uno dei siti automobilistici più produttivi al mondo.

Le foto sono fatte così: un giorno le guardi e ti rendi conto che tutto è cambiato. E anche se è passato solo un anno e mezzo da quel giorno di festa, a Melfi gli operai non sorridono più. Gli italiani hanno visto nel servizio di Claudio Pappaianni, andato in onda su Servizio Pubblico di Michele Santoro, il preposto aziendale Francesco Tartagliaminacciare un operaio: «Io ti stacco la testa e la appendo in piazza». Tartaglia è lo stesso che la sera del 14 luglio 2010 fece partire la contestazione che portò al licenziamento di Giovanni BarozzinoAntonio Lamorte e Marco Pignatelli, della Fiom, colpevoli di aver «interrotto la produzione» con uno sciopero.

Melfi è un antico paese lucano, su cui domina il castello, che la notte rimane illuminato. Da lì i normanni potevano vedere cosa accadeva nel paese, e se vi affacciate oggi e guardate a valle potrete vedere cosa succede nello stabilimento Fiat Sata. A un chilometro dalla fabbrica c'è un capannone isolato, la ex Itca, dove vengono trasferiti gli iscritti Fiom o gli attivisti, dice il segretario lucano Fiom Emanuele De Nicola: «Abbiamo denunciato come sindacato quei trasferimenti, con cui si vuole confinare chi è tesserato al nostro sindacato». Secondo De Nicola: «Sono una decina i licenziati della Fiom dal 2010, mentre con la "mobilità interna" chiunque può essere spostato di reparto senza  preavviso». 
Come Marco Forgione, anche lui della Fiom, che a 30 anni ha avuto un tumore ai polmoni: «La mia cartella clinica dice che non posso stare vicino alle polveri e ai solventi», dice, «ma mi hanno messo in lastratura, alla Itca, dove non posso respirare bene». Marco chiede spiegazioni del trasferimentoal caporeparto, che ammette: «Vi hanno messo qui perché appartenete a quella sigla sindacale».

Alle polveri della saldatura della ex Itca, hanno trasferito anche Michele Corbusiero, che nel 2010 ha avuto un infarto: «Io sto male al lavoro, e nonostante il certificato medico mi lasciano lì. Un preposto aziendale dovrebbe occuparsi della produzione», continua, «ma qui a Melfi ha potere di vita e di morte su tutti noi». Gli operai Fiat, gli stessi che posavano in quella vecchia foto, ora denunciano una situazione drammatica: «Siamo trattati come schiavi, siamo carne da macello. A Melfi se vuoi continuare a lavorare», dice ad esempio Lucio Schirò, operaio: «Non devi vedere, sentire e parlare». Ma ora, molti operai, a stare zitti non ce la fanno più.

L'udienza e la ritorsione
Marco Forgione, si diceva, è stato operato per un cancro ai polmoni e adesso è invalido al 75 per cento. Ha 30 anni, un grosso cane e - dice - ha «Sempre lavorato sodo». Però non deve stare esposto a fumi, polveri sottili, solventi. Infatti era stato assunto come categoria protetta e lavorava in catena di montaggio da sette anni. «Senza mai saltare un giorno», racconta: «Andavo a lavorare anche con la febbre, non mi vergogno a dirlo». Poi accade qualcosa. Nel luglio 2010 tre operai vengono licenziati per avere bloccato la produzione con uno sciopero. Inizia il processo e alcuni colleghi vanno a testimoniare a favore dei tre. Tra loro, Marco. Che ne paga le conseguenze: «Mi hanno trasferito in lastratura alla ex Itca, per allontanarmi dalla catena di montaggio», dice, «come hanno fatto con altri della Fiom, e lì sto a contatto con le polveri che non posso respirare».

Il gestore operativo, invece di rimetterlo al montaggio, lo dichiara 'incollocabile'. Marco si lamenta col suo caporeparto Gaetano Perrini, in questa discussione registrata: «Aggravare la mia condizione di salute significa non potere più tornare indietro». Il caporeparto, che nella conversazione dice di non avere deciso lui il trasferimento, risponde: «Voi avete pagato delle colpe perché appartenete a una sigla sindacale [...] Non è per altri motivi che vi trovate qua».
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sabato 18 febbraio 2012

L'attacco finale al mondo del lavoro

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di Italo Di Sabato
Nell'ultimo mezzo secolo nel rapporto tra capitale e lavoro ci sono stati tre capisaldi che hanno messo sulla bilancia del lavoratore un peso che riequilibrasse tale rapporto: il contratto nazionale, la rappresentanza sindacale e l'impossibilità di essere licenziati, se non per giusta causa, nelle aziende sopra i 15 dipendenti (Art. 18). Di questi tre capisaldi ne è rimasto concretamente solo uno ed è l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il modello Marchionne ha spazzato via nel gruppo Fiat sia il contratto nazionale che la Fiom, ormai esclusa da tutto. Il famigerato art. 8 della manovra estiva del governo Berlusconi, che consente di fare accordi “in deroga ai contratti e alle leggi”, ha invece ridotto di fatto a pura forma tutti i restanti contratti nazionali dando la possibilità di deroghe locali con la semplice firma di un sindacato compiacente e pilotato interno all'azienda.
Questa premessa serve per capire quale sia il contesto in cui si sta aprendo il dibattito sulla “riforma” del mercato del lavoro. Sul piatto, oltre alla volontà di Monti e della Ministro Fornero a mettere mani cancellando l'art.18,  ci sono tre proposte, tutte di personaggi in area PD o ex Cgil (Ichino, Damiano, Boeri) ma tutte ruotano intorno all'abolizione totale o parziale dell'articolo 18 e tutte partono dalla scusa ufficiale che il mercato del lavoro è duale, cioè c'è troppa differenza fra garantiti (cassa integrazione, articolo 18, sussidio di disoccupazione) e precari a vita. Vero, ma non si capisce perché per  “riformare” ci sia bisogno di togliere a chi ha per diventare tutti uguali senza niente in mano.
L'articolo 18, infatti, disciplina quello che succede nel caso in cui un licenziamento sia dichiarato illegittimo e dunque, stabilisce quello che succede quando un datore di lavoro licenzia senza motivo un lavoratore. Se il motivo è giusto invece l'art. 18 non interviene e l'azienda può licenziare il lavoratore come disciplinato dall'art, 2119 del codice civile. Ma a parte questo viene spontanea una domanda: cosa c'entra l'art. 18 con la “riforma” del mercato del lavoro e quella degli ammortizzatori sociali? Nulla, come quando ci propinano che con  i contratti precari e flessibili si sarebbe risolto il problema della disoccupazione giovanile e invece era ed è uno strumento per abbattere il costo del lavoro e togliere ogni tutela ai giovani stessi.
L'articolo 18 non è quindi un elemento che impedisce il cambiamento, ma è solo la merce di scambio che governo, confindustria e partiti conviventi vogliono per mettere mano alle storture e alle ingiustizie di 15 anni di pacchetto Treu e legge Biagi. In linea generale la “riforma” Ichino/Fornero mette sul piatto l'abolizione delle 40 tipologie di contratti precari, con un contratto unico per tutti e l'allungamento del periodo di copertura del sussidio di disoccupazione (4 anni, 90% dell'ultimo salario il primo, e poi a scalare 80%, 70% e 60% negli anni successivi) più una buonuscita pari a una mensilità di salario per ogni anno di anzianità aziendale (con un tetto massimo). Ciò si applica solo a chi ha almeno un anno di anzianità all'interno di una stessa azienda e se il disoccupato stipula un accordo di ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli eroga il sussidio (anche con proprie risorse, aggiuntivamente alle risorse provenienti dal sussidio oggi a carico dell'Inps) e che ha interesse economico a sistemarti velocemente il lavoratore in un nuovo contesto produttivo (quindi arriveranno proposte continue anche di lavori mediocri e malpagati e in caso di rifiuto c'è il rischio di perdita del sussidio). In cambio di questa “riforma”, governo e confindustria vogliono l'articolo 18, cioè la libertà di licenziare sempre e senza giusta causa, solo perché sei brutto o perché hai chiesto qualcosa che ti spetta, o perché sei iscritto ad un sindacato che all'azienda non piace.
Perché per loro è cosi importante questo articolo dello Statuto dei Lavoratori? Perché è l'unica forza che ha il lavoratore per far valere i propri diritti e bilanciare il rapporto di debolezza e subordinazione che ha nei confronti dell'azienda. Infatti laddove non si può applicare (aziende sotto i 15 dipendenti) si assiste spesso a situazioni al limite della dignità e rapporti basati esclusivamente su paura e ricatto.
Ma c'è un altro motivo. Se l'articolo 18 lo si abroga nel contesto di un depotenziamento totale del contratto nazionale e con la morte della democrazia sindacale si ottiene un effetto devastante in cui le aziende si ritroveranno con lavoratori privi di tutele, ricattabili e con sindacati filo aziendali con a capo qualche prezzolato dell'azienda stessa. Quindi lo scambio è chiaro: zero tutele all'interno delle aziende, più tutele fuori dall'azienda in caso di licenziamento. Il paradiso terrestre dei padroni!!.
Per questo l'articolo 18 va difeso con ogni mezzo da giovani e vecchi, pensionati e disoccupati, da chi lavora dove non può essere applicato, da chi vive con un contratto precario e flessibile. E' l'ultima arma in mano ai lavoratori per far valere, a livello generale, un rapporto di forza nei confronti del mondo imprenditoriale e politico. Crollato quello, le condizioni dei lavoratori peggioreranno per tutti anche per coloro che a prima vista possono legittimamente pensare che l'articolo 18 non gli sarà mai applicato e con la riforma Ichino/Fornero almeno prende qualche soldo che ora gli viene negato in caso di licenziamento. L'abolizione degli obbrobri contrattuali e una maggiore tutela economica in un periodo di crisi sono elementi che servono adesso, senza dover dare niente in cambio.


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martedì 14 febbraio 2012

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Dobbiamo fermarli
di Giorgio Cremaschi
Se fossi stato in piazza Sintagma avrei anch’io applaudito i black block. Quello che si sta facendo alla Grecia è una violenza autoritaria senza precedenti  per l’Europa occidentale, dal ‘45 ad oggi. Il solo paragone che viene a mente è quando nel 1938, a Monaco, le grandi potenze europee umiliarono la piccola Cecoslovacchia costringendola a cedere la regione dei Sudeti a Hitler. Allora si disse che l’Europa aveva scelto il disonore per evitare la guerra e avrebbe avuto entrambe. Oggi i governi europei e le banche scelgono il massacro sociale per evitare il fallimento e avranno entrambi.
Oramai è chiaro che è criminalità economica quella che viene imposta dalla Troika (Fondo monetario internazionale, Banca europea e Commissione europea), in alleanza con i governi di destra dell’Europa, da Merkel a Monti. Questa linea provoca terribili devastazioni ma non ha alcuna possibilità di rilanciare la tanto decantata crescita, in questo senso andrà a un clamoroso fallimento. Questa linea distrugge senza produrre alcunché, se non i guadagni grondanti di sangue delle Borse, che oggi festeggiano il massacro greco.
Pare che adesso, non contenti, i burocrati e governi europei chiederanno ai partiti greci di sottoscrivere gli impegni, votati da un parlamento totalmente delegittimato, anche per dopo le elezioni. E se il voto dovesse, come è quasi sicuro, cancellarli questi partiti servi dell’Europa delle banche? Allora cosa chiederà l’Europa, un governo tecnico dei colonnelli?
Le barricate greche sono il segno della sconfitta dell’Europa della finanza e delle banche, i loro stupidi guadagni hanno vita corta. Certo si vuole colpire la Grecia per far pensare agli italiani che in fondo la rinuncia all’articolo 18 è un prezzo tollerabile, visto quello che è successo in quel paese. E può darsi anche che in un parlamento italiano, asservito e delegittimato come quello greco, questa stupidaggine trovi largo consenso. Ma la sostanza è che la rivolta greca è solo l’annuncio della rivolta europea contro la dittatura finanziaria che sta distruggendo democrazia e stato sociale. E’ solo questione di tempo e la rivolta in Europa crescerà e travolgerà i governi tecnici e chi li sostiene. Dobbiamo fermarli. Cominciamo ora.


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giovedì 9 febbraio 2012

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MERCATO DEL LAVORO
«Ora è un bel sentiero largo»

Di Francesco Piccioni, il manifesto 09/02/2012

Camusso per tre ore a colloquio con il ministro Fornero, che dice “Pochi soldi per gli ammortizzatori sociali. Il nodo delle risorse è drammatico; abbiamo limitato le perdite”

In attesa che si riapra il tavolo di confronto, «la porta del ministro è sempre aperta». Elsa Fornero, ministro del lavoro-welfare (le due cose non vanno più d'accordo da molti anni), ha risposto così a chi le chiedeva se stava o no lavorando ad avvicinare le posizioni con le parti sociali (sindacati e Confindustria). Naturalmente ha tenuto a precisare che da quella porta passa con il saluto di benvenuto soltanto chi vuol «parlare di riforma del mercato del lavoro con l'agenda che abbiamo stabilito». E ognuno intende che l'agenda non riguarda tanto la tempistica («chiuderemo entro marzo»), quanto «il merito». A cominciare dall'art. 18, su cui non è disposta a fare alcun passo indietro.
In realtà, dentro lo schema «danese» illustrato a tratti dal ministro, la (comunque indigeribile) licenziabilità dei dipendenti andrebbe compensata con un rafforzamento degli ammortizzatori sociali. Fino all'introduzione di un reddito di disoccupazione ben più sostanzioso e duraturo dell'attuale. Al contrario, il ministro si dice consapevole che il vincolo delle «risorse di bilancio», come per altre voci della spesa pubblica, «è drammatico». Al punto che «non abbiamo risorse aggiuntive, ma abbiamo arginato una perdita di risorse». O, come dice il ministro, «il senso dell'azione di questo governo è che quello che fai sul mercato del lavoro non deve contraddire le politiche sociali». Tradotto, dovrebbe significare che per ora - come chiesto anche da Confindustria - non dovrebbe esser toccata la struttura in vigore (cassa integrazione ordinaria e straordinaria, mentre resta in forse la «mobilità»). Ma nessuna "compensazione": solo una perdita secca per chi lavora.
Le barricate erano già state tolte, nei giorni scorsi, dai segretari generali di Cisl e Uil (Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti), che si erano pronunciati a favore della possibilità di licenziare «per motivi economici». Una barzelletta, per gli addetti ai lavori, visto che le imprese possono già ora licenziare collettivamente «per motivi economici» dichiarando - e ottenendo il riconoscimento pubblico, dopo una verifica presso il ministero del lavoro - lo «stato di crisi». Conosciamo bene la procedura per esperienza diretta, diciamo...
Quindi? Se due sindacalisti importanti come Bonanni e Angeletti se ne escono così, sembra scontato che si riferiscano a una nuova formulazione dei «motivi economici», che magari non preveda più alcuna verifica pubblica. Insomma, una sorta di «autocertificazione» dell'azienda che così può mettere fuori chi le pare anche senza «giusta causa»; e senza incorrere necessariamente nel rischio di esser poi costretta alla «reintegra» perché trovata colpevole di «licenziamenti discriminatori» o addirittura «comportamento antisindacale».
Resta il nodo Cgil, ufficialmente e compattamente contraria a ogni ipotesi di «manutenzione peggiorativa» dell'art. 18. Fuori dall'ufficialità, però, si sa che la riunione di lunedì dei segretari generali (di categoria e regionali, a confronto con la segreteria confederale) è stata molto tempestosa, con al centro la gestione del «confronto» da parte di Susanna Camusso. In molti, infatti, e ben al di là delle dimensioni dell'area «dissidente», pensano che la Cgil avrebbe già da tempo dovuto predisporre un calendario fitto di mobilitazioni. E che comunque non si possa tergiversare ulteriormente, davanti alle «proposte indecenti» che arrivano dall'esecutivo.
Ma, dicevamo, la porta del ministro è «aperta». E ieri mattina Camusso l'ha attraversata per uno scambio di idee durato circa tre ore. L'unica a parlarne è stata il ministro, con un «è andata bene» all'uscita. E con una risposta sorridente ben più esplicativa, poco dopo, a chi le chiedeva se la via per l'accordo fosse «stretta»: «è un bel sentiero largo». Ieri sera gli incontri informali tra le parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro sono andati avanti con un incontro tra i leader dei sindacati nella sede della Uil. Poi i sindacati si sono spostati nella sede della foresteria di Confindustria. Nessun commento all'uscita da parte dei sindacalisti.
Stamattina, intanto, Fornero vedrà Emma Marcegalia, presidente di Confindustria, che proprio non può lamentarsi di quel che questo governo sta regalando alle imprese. E a quel punto il «sentiero» dovrebbe assumere le dimensioni di un'autostrada.
Le ultime grane per Fornero arrivano da un problema sindacale apparentemente minore, ma esemplare dello spirito con cui questo esecutivo procede. Un bel numero di sindacati dei medici - Snami, Smi, Simet, Cipe, Fp-Cgil, Cisl e Uil-fpl - l'ha infatti accusata di «irresponsabilità», perché «sulle pensioni dei medici si sceglie i sindacati con cui trattare». In pratica, il ministro avrebbe convocato soltanto una parte dei sindacati che rappresentano «medici di famiglia, guardia medica, 118, servizi e specialistica autonoma». Una prassi autoritaria in stile Sergio Marchionne, da Pomigliano in poi.
Se lo stile è questo, bisogna dire che il regno sabaudo è stato restaurato. Non sembra una buona notizia per la repubblica. E tantomeno per i sudditi...


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martedì 7 febbraio 2012

Occupazione: ricette immaginarie

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L'occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati
sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti
un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3
milioni. Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e
alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere
anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza
del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la
riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l'intento di
rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni
governative.
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può
star certi che i membri del governo credono davvero che le "nuove regole sui licenziamenti per
ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro", richieste da una lettera del
commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l'occupazione e
ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle
condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora
detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l'Europa), dai sindacati
(salvo affermare, e si può essere d'accordo, che l'articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria
(per la quale l'articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c'è una sola indicazione che
riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il
numero dei disoccupati e dei precari.
Si prenda il caso della "flessibilità buona", un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido)
coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o
superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per
due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i
medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà
che questo è appunto l'intento del governo. Ma è proprio qui che sta l'errore. Le imprese in crisi
hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il
numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese
in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro?
Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch'esso determinabile in base al
numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un
ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro
condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa:
prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della
precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si
passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente,
per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.
Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire
il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che
le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per
creare occupazione la ricetta è un'altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.
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lunedì 6 febbraio 2012

Resistere e unire le lotte

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L’editoriale del nuovo numero di FalceMartello
“Abbiamo messo in sicurezza i conti” ci rassicura il professor Mario Monti intervistato dal conduttore-zerbino del centrosinistra Fabio Fazio. In effetti la quantità di miliardi risparmiati dalle tre manovre effettuate nel 2011, prima da Berlusconi e poi dal governo dei tecnici, è notevole. Persino Angela Merkel, accogliendo di nuovo l’Italia nel consesso delle nazioni che contano, si è detta “impressionata” per la severità delle misure imposte da Monti.
Lo spettatore-elettore progressista avrà tirato un sospiro di sollievo, ma si è trattato di un attimo: subito Monti ha aggiunto che l’Europa si aspetta nuovi provvedimenti, e li vuole a tempi brevi. È in arrivo un nuovo trattato europeo, sotto dettatura di Berlino, che imporrà il pareggio di bilancio a tutti i paesi dell’Unione. Già Camera e Senato hanno approvato in prima lettura le modifiche costituzionali che vanno in questo senso, ma l’Europa (leggi: il capitale) ha bisogno di ulteriori “rassicurazioni”.

Ed ecco giornali e televisioni mettere in campo un battage pubblicitario soffocante per far divenire attraente all’opinione pubblica la nuova parola magica: liberalizzazioni.

Con la sua solita aria da professore severo ma al tempo stesso giusto e tranquillizzante, Monti nella stessa intervista ha affermato che si tratterà di “operazioni meno indigeste” per l’opinione pubblica.

La realtà è che le tanto decantate liberalizzazioni non sono solo quelle riguardanti le licenze dei tassisti o del numero dei notai, ma comprendono un attacco decisivo a quello che resta del contratto nazionale e dei diritti di chi lavora. Per il pensiero dominante, infatti, tutto è “corporazione” (tranne naturalmente la tutela dei propri interessi di classe) e quindi anche l’organizzazione collettiva di noi lavoratori. E allora via l’articolo 18, ma anche addio “all’obbligo di applicare i contratti collettivi nel settore del trasporto ferroviario”. Un bel regalo a Montezemolo, ma anche all’Ad di Trenitalia, Moretti. Diventerà carta straccia anche il risultato referendario del 12-13 giugno. Nelle parole del governo, “è chiaro che l’acqua è un bene pubblico. È il servizio di gestione che va liberalizzato” (così il sottosegretario Polillo, Il Manifesto 11 gennaio 2012). Per non parlare della liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali che avrà pesanti ricadute sulle condizioni di lavoro dei lavoratori del settore.

Attraverso le liberalizzazioni, si dice, “gli italiani, vessati da tagli e tasse, risparmieranno”. Niente di più falso. Un studio della Cgia di Mestre, reso pubblico lo scorso 17 dicembre, ha analizzato gli andamenti dei prezzi nei servizi erogati in undici settori aperti alla concorrenza negli ultimi vent’anni. È aumentato tutto, dalle tariffe nel settore delle assicurazioni (184,1% dal 1994) a quello dei servizi bancari (109,2% dal 1994), dai treni (53,2% dal 2000) alle autostrade (50,6% dal 1999), concludendo con il gas (33,5% dal 2003). Si sono abbassati solo i costi della telefonia.

Di queste misure il capitalismo ha assoluto bisogno, soprattutto visto che la crisi economica non si è affatto conclusa. Secondo Standard & Poor’s, nel 2012 il Pil si dovrebbe contrarre dell´1,5% nell’Eurozona. Per l’Italia Confindustria fa una previsione ancora più fosca: -2%.

In questo contesto, la manovra approvata dalle Camere poco prima di Natale non sarà affatto l’ultima. Il vecchio continente si prepara a un’epoca di austerità, di cui il nuovo trattato vuole definire le leve giuridiche attraverso cui imporla.

Il governo Monti, lungi dall’essere un governo di una stagione, è stato posto nelle condizioni per imporre una politica di sacrifici e di rigore. La recente bocciatura dei quesiti referendari per l’abolizione del “porcellum” spiana ulteriormente la strada verso la fine naturale della legislatura.

Con la collaborazione del Partito democratico (entusiasta sostenitore delle liberalizzazioni, e non da ieri) i “tecnici” hanno imposto la più dura controriforma delle pensioni dai tempi del governo Dini. Attraverso un clima asfissiante da unità nazionale, promuovono il più grave attacco ai diritti e alle libertà dei lavoratori dal dopoguerra ad oggi.

I vertici della Cgil assistono a questo massacro totalmente incapaci di elaborare una risposta all’altezza. Chi si ricorda più delle tre ore di sciopero “per una manovra più giusta” dello scorso 12 dicembre?
La “linea Maginot” della Camusso sembra essere rimasta quella della difesa dell’articolo 18, ma con quali strumenti i vertici Cgil si preparano a dare battaglia? Sono strumenti spuntati, perché la linea è chiara: non si deve scioperare contro questo governo, non ci si deve porre all’opposizione di Monti. Giammai a qualcuno venga in mente di farlo cadere! La logica che ha pervaso l’indirizzo politico non solo della Cgil ma anche della Fiom è quella della valutazioni sui singoli provvedimenti, del caso per caso. Insomma: non si disturbi il manovratore!

Ed è soprattutto per la mancanza di un punto di riferimento politico e sindacale, che le lotte, durissime ed esemplari, che scoppiano in ogni lato del paese, da Fincantieri alla Wagon Lits, ai tanti focolai di resistenza che trovano uno spazio su questo mensile, faticano a trovare un minimo comune denominatore che possa unificare tutte le vertenze.

È necessario mettere assieme tutti coloro che il manovratore lo vogliono disturbare, che vogliono costruire un’opposizione politica e sociale al governo Monti e alle forze politiche, con in testa Pd e Pdl, che lo sostengono. Un’opposizione che non venga meno una volta che il Professore avrà concluso il suo mandato e che sviluppi un programma di alternativa complessiva al capitalismo. Nonostante la cortina fumogena di mass media, intellighentzia e vertici dei partiti “progressisti”, la rabbia nei confronti di questo governo è crescente e tangibile. È compito dei comunisti rappresentarla.

Porteremo questa posizione in tutte le mobilitazioni delle prossime settimane, a partire dal corteo nazionale della Fiom dell’11 febbraio e costruiremo con convinzione la manifestazione del 10 marzo promossa dal comitato No Debito, perchè i lavoratori italiani tornino in prima linea nella lotta contro il capitalismo e tutti i suoi paladini.
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mercoledì 1 febbraio 2012

Potenza sommersa dalla spazzatura

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Emergenza rifiuti solidi urbani a Potenza. Da qualche giorno a questa parte i rifiuti si stanno accumulando non soltanto nei cassonetti, ma anche a terra, preda dei randagi e delle auto in transito. Una situazione che riguarda l’intera città, dal centro alla periferia e che, dalla chiusura della discarica di Pallareta in poi, si ripete con sconfortante regolarità. «Come accade ogni volta che è in scadenza l’ordinanza regionale per il conferimento dei rifiuti - conferma alla Gazzetta il direttore dell’Acta Marcello Tricarico - siamo andati in sofferenza per l’esaurimento dei quantitativi previsti, tanto che l’ultima settimana non abbiamo potuto affatto conferire alla stazione di trasferenza di Tito, mentre la settimana precedente abbiamo conferito a singhiozzo, 800 quintali al giorno per tre giorni e 250 quintali al giorno per gli altri tre giorni. Per i primi dieci giorni siamo riusciti a sopperire alle difficoltà aumentando la volumetria sul territorio, utilizzando i nostri cassoni più grandi e quando questi si sono riempiti abbiamo tenuto la spazzatura sui camion ». Negli ultimi giorni, infatti, si sono visti in giro soltanto i tre ruote, che avrebbero avuto il compito di raccogliere almeno i sacchetti a terra. Ma quando si sono riempiti, non hanno potuto far altro che portare a termine i rispettivi giri, senza poter raccogliere più nulla. Alla «normale» situazione di emergenza, poi, si è aggiunta anche un pizzico di sfortuna, visto che due degli autocompattatori in dotazione all’azienda si sono rotti. «Per sopperire a questa situazione almeno in parte abbiamo noleggiato un mezzo da un’altra ditta». Per di più si sente dire in giro che anche le spazzatrici non godano di ottima salute. Ma ad accelerare la «disfatta», oltre all’esaurimento dei volumi concessi dall’ordinanza regionale e agli inconvenienti tecnici dell’Ac - ta, ci si è messa anche la discarica di Pisticci che, come ha dichiarato alla Gazzetta l’assessore provinciale all’Ambiente Massimo Macchia, «non ha ottemperato del tutto alle indicazioni dell’ordi - nanza regionale, rifiutando 1000 tonnellate di rifiuti provenienti dalla città di Potenza». Questo senza contare le difficoltà dovute alla carenza di carburante e alla necessità di avere una riserva anche per i mezzi antineve. Ieri, intanto, L’Acta ha potuto conferire 800 quintali di spazzatura alla stazione di trasferenza, il che ha consentito di svuotare i tre ruote (che sono così tornati all’opera), i camion e due cassoni. Oggi i camion saranno di nuovo in strada ma non si sa se e in che misura potranno conferire in discarica. «Se non ci saranno interruzioni, conferendo 800 quintali al giorno, la situazione potrà tronare alla normalità in tre o quattro giorni», conclude Tricarico. Tutto dipende, dunque, dall’approvazio - ne della nuova ordinanza regionale. Il presidente dell’Acta Domenico Iacobuzio, ha detto che «la mancanza di carburante si è aggiunta alla questione relativa all'ordinanza di sversamento» che comporta «la diminuzione della quota di sversamento giornaliero dei rifiuti concessa all'Acta dai gestori». Per il consigliere regionale Michele Napoli «l’impossibilità di far circolare i mezzi potrebbe essere l’ul - timo degli espedienti utilizzati percoprire le carenze strutturali di un sistema rifiuti che in Basilicata è agonizzante. Le poche discariche disponibili sono ormai alle soglie della saturazione e di conseguenza risulta difficile conferire le quantità di spazzatura che la città di Potenza produce».



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