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venerdì 28 ottobre 2011

Licenziamenti: verso lo sciopero generale

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È scontro sull'ipotesi di modificare la disciplina sui licenziamenti contenuta nella lettera inviata dal governo al consiglio europeo. Le opposizioni e i sindacati sono sul piede di guerra. Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani parla di «inaccettabile minaccia», la Cgil annuncia che reagirà «con forza», Cisl e Uil promettono che se saranno fatte modifiche senza il consenso delle parti sociali sarà sciopero generale. «L'obiettivo è assumere, non licenziare», chiarisce il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. «'Licenziamenti facilì - spiega Sacconi - è un titolo che serve solo a spaventare una società già insicura ma che non rappresenta le misure suggerite dall'Europa ed accolte dall'Italia con altre proprie integrazioni». Sacconi annuncia che sarà aperto «presto un tavolo di confronto con le parti sociali, che invitiamo ad approfondire il merito senza pregiudizi. I »no« - conclude - non fanno nè crescita nè occupazione. E tantomeno aiutano la stabilità». «Non abbiamo introdotto misure così negative come in Grecia, dove ricordo che ci sono state misure come il licenziamento di un numero importante di impiegati pubblici, la diminuzione del 25 per cento degli stipendi», afferma Silvio Berlusconi rivendicando la differenza tra le decisioni in cantiere per i dipendenti pubblici e quelle viste a Atene. «Nulla di tutto questo. Da noi - scandisce - c'è solo la mobilità, e la possibilità che degli impiegati pubblici siano messi in cassa di integrazione per periodi limitati». Bersani taglia corto: «Sono inaccettabili minacce di entrare a piè pari sul mercato del lavoro». Mentre più in generale Fli promette che non farà sconti al premier: «Berlusconi ha scritto la lettera all'Unione Europea da solo, senza alcuna consultazione delle opposizioni. Non cerchi Berlusconi coinvolgimenti ex post, non gli faremo sconti», dichiara Carmelo Briguglio, vicecapogruppo vicario di Fli a Montecitorio. «Norme a senso unico contro il lavoro e il modello sociale italiano sono all'interno di una lettera da libro dei sogni, incubi per la verità». Così invece la Cgil bolla la lettera annunciando che «il sindacato reagirà con la forza necessaria». Il leader della Cisl Raffaele Bonanni promette: «Se il governo dovesse, senza il consenso delle parti sociali modificare l'assetto dei licenziamenti la Cisl andrà allo sciopero. Non siamo d'accordo a mettere mano sui licenziamenti ci sembra una provocazione mentre il Paese ha bisogno di coesione». Fa eco la Uil: Se il Governo decidesse di modificare le norme sul lavoro, unilateralmente, saremmo costretti a promuovere uno sciopero generale«, si legge nella nota della segreteria nazionale.
Uno sciopero unitario? «Dateci il tempo di parlare». Così la segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso, ha risposto ai giornalisti che le chiedevano se fosse in preparazione uno sciopero unitario con Cisl e Uil, dopo le misure annunciate con la lettera di intenti del governo a Bruxelles. «Ci stiamo pensando - ha aggiunto Camusso - bisogna capire cosa in concreto il governo ha intenzione di fare, valuteremo tutte le possibilità, per il momento rimane certo l'appuntamento del 3 dicembre a San Giovanni a Roma».

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venerdì 21 ottobre 2011

Ticket contro le inefficienze. Duri attacchi al sistema della Sanità lucana

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21/10/2011 POTENZA - “Sacrifici per i più deboli, privilegi per i più forti”. E ancora un altro slogan: “Non ci stiamo più, indignati, ma non solo”. Un attacco forte, deciso quello che viene scagliato attraverso un volantino colorato alla Sanità lucana e a tutto il “sistema” lucano. In particolare “l’indignazione” è contro i ticket della sanità. L’attacco viene dalla Fiom Cgil e da Basilicata civica. Si contesta l’introduzione dei ticket a fronte «delle inefficienze della Sanità lucana». La Fiom Cigl insieme a Basilicata civica poi, elencano per “dimostrare” le inefficienze elencano in una tabella come sono cresciute dal 2004 a oggi le liste d’attese all’ospedale San Carlo che è considerato il “fiore all’occhiello” della Sanità lucana. Nei dettagli la Fiom - Cigl e Basilicata civica, attraverso il comunicato dichiarano: « L’emigrazione sanitaria se la si vuole affrontare nel modo giusto va analizzata in tutti i suoi aspetti. Va rigettata la solita banalità di una cultura dell’esterofilia esasperata, come frutto di un nostro provincialismo. C’è innanzitutto un fattore dovuto alla “fama” ed alla tradizione di alcune strutture del centro-nord, che in alcune particolari specialità danno una maggiore affidabilità al cittadino ammalato. Oncologia prima di tutto. L’impatto poi con un’organizzazione più efficiente dà anche una tranquillità sotto molti punti di vista. Purtroppo la nostra organizzazione qualche carenza disfunzione in più la dimostra. Le lamentele ci sono.!». «Nella nostra Regione - prosegue la nota - molte Unità operative specialistiche sono cresciute con buoni standard assistenziali e risultati ottimi, tanto che ammalati vengono da fuori regione. Al di là della legittima libertà di scegliere la struttura dove curarsi, vanno individuati alcuni motivi più particolari che portano a questa situazione cronica di emigrazione. Tutto insieme: disfunzioni, carenze, incertezze sui tempi attesa, qualche risultato deludente, ecc..ecc..! Lungaggini varie rappresentano le motivazioni più frequenti. Un altro fattore , importante, è quello dei medici di famiglia che spesso non sono al corrente di quello che le strutture ospedaliere a due passi fanno in termini di diagnosi e cura. Esiste una “separatezza” fra le varie categorie di medici; ospedalieri da una parte, i medici di famiglia dall’altra. Antiche incomprensioni mai sanate...! La mano destra non sa quello che fa la mano sinistra viceversa. Attardarsi a parlare di colpe non serve; è utile trovare le giuste soluzioni che rappresentano anche una maggiore garanzia per i cittadini. Bisogna creare più spesso occasioni comuni di aggiornamento discussione sulle patologie più importanti; esperienze e risultati. Protocolli comuni». E quindi si conclude la nota: «La famosa “rete” di cui parla l’assessore alla Sanità dovrebbe cominciare dal medico di famiglia. Rete significa comunicazione conoscenza reciproca, continuità assistenziale. Anche perché alcune motivazioni all’emigrazione sono veramente stupefacenti . Le tante strutture vanno ripensate, meglio definiti con ruoli compiti per ciascuna; alzare i livelli organizzativi e funzionali. La sanità è un punto critico della vita sociale ed economica. Esistono in Basilicata capacità e funzionalità sottovalutate!». E quindi poi la seconda parte della nota - volantino passa agli slogan e alla domande: “Perché siamo chiamati a pagare con i Ticket le inefficienze del servizio sanitario regionale. Perché non vengono colpiti gli sprechi. Perché i direttori generali non vengono nominati e confermati sulla base dei risultati conseguiti e dai servizi offerti ai cittadini. Perché 17 ospedali ed i cittadini per curarsi devono attraversare una intera regione anche per visite banali. Perché colpire sempre i cittadini attraverso i ticket sulla farmaceutica e sulle visite specialistiche». 

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etrolio. Alla ricerca dei permessi mai dati

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POTENZA - Il primo ad accorgersi che qualcosa non andava fu Franco Mattia. Nel 1998 è assessore all'assetto del territorio e alla tutela del paesaggio. Il permesso per fare ricerca di idrocarburi in località Montegrosso accordato alla società “Intergas più” già nel 1990 aveva bisogno del nulla osta regionale. Quando gli ispettori del corpo forestale dello Stato cercano l'autorizzazione negli uffici della Regione (all'inizio di un'indagine di cui era titolare il pm Cristina Correale e che ora è stata assegnata al pm Colella) non trovano nulla. Sentono un funzionario del dipartimento ambiente, gli chiedeno chiarimenti, il dipendente regionale fa ricerche in archivio, ma - conferma - di quel nulla osta paesaggistico non c'è traccia. Perchè non è mai stato concesso. Non fu un problema per la società: iniziò ugualmente l'attività di ricerca. Spregiudicati? O c'erano state complici rassicurazioni? 
Un altro dubbio venne al dirigente del dipartimento agricoltura e foreste, Michele Radice. Avuta la valutazione d'impatto ambientale, lesse, studiò, rimase perplesso. E la trasmise - come del resto avrebbe dovuto fare in ogni caso - al dipartimento ambiente per assicurarsi un parere tecnico. Gli investigatori cercano pure quel parere. Sentono altri funzionari e si scopre che tutta la documentazione relativa alla società British gas rimi spa (una delle numerose sigle che si sono succedute nel corso degli anni con quote anche di Eni e Total) è stata depositata alla rinfusa, difficilmente rintracciabile. Ma molti atti fondamentali mancano perchè non sono mai stati adottati.
Già un anno prima, nell'ottobre del 1997, l'allora assessore all'Agricoltura, Vito De Filippo, chiede al collega dell'Ambiente, Filippo Bubbico, di esprimere un parere in merito alla Via (valutazione d'impatto ambientale) presentata dalla società permissionaria. L'assessore Bubbico, pur ricostruendo che il permesso di ricerca Serra San Bernardo non era assoggettato alla procedura di Via (prevista dal dpr 526/94) in quanto concesso in data antecedente, riteneva comunque, vista la dimensione dell'area destinata alla ricerca, di chiedere un idoneo piano ambientale. Quel piano, però, non fu mai redatto. 
Maglie larghe che favorirono inevitabilmente le società petrolifere e le loro trivelle. Ad esempio: carte da allegare a qualche pratica spedita all ministero dello sviluppo svengono spacciate per autorizzazioni necessarie ai lavori. E quando il pozzo Monte Grosso 1 non sarà più utilizzabile per l'avvenuta chiusura mineraria (nel 2000) inizieranno i lavori in area Monte Grosso 2. Ci vorrebbe anche qui un nulla osta preventivo della Regione Basilicata. Ma non ci sarà. E' il motivo per cui nel novembre 2007 l'area viene sequestrata. Gli investigatori sentono dirigenti regionali, per esempio la dottoressa Pietragalla. «La delibera di Giunta?» Mai fatta. Quella delibera era obbligatoria. La regione non sapeva delle attività in corso, si difende la dirigente. Ma gli investigatori sono scettici. E se la Regione sapeva come mai nessuno si è preoccupato di controllare che i fanghi da perforazione (altamente tossici perchè trattati con sostanze chimiche) erano lasciati a terra perchè la vasca di raccolta era stracolma? Quando il comitato tecnico regionale per l'Ambiente (presieduto dalla dirigente regionale Viviana Cappiello con la presenza della geologa Arpab Vaccaro) si riunisce per valutare la relazione d'impatto ambientale, gli esperti convengono che sì, è tutto a posto e va tutto bene. Poi inizia l'indagine. Forse qualcuno ci ripensa. Iniziano a rinfacciarsi le responsabilità. Accuse incrociate. Fino a quando qualcuno ammette candidamente: «Non è che quegli atti li abbiamo letti tutti tutti e così bene». Un suggeritore aveva assicurato che in quegli atti non c'era nessun vizio sostanziale. 

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Dopo il 15 ottobre, un'assemblea pubblica per «ripendere il cammino»

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Il testo dell'appello che lancia l'assemblea pubblica di domani, venerdì 21 ottobre al cinema Palazzo di Roma.
Roma 21.10: riprendere il cammino
Dopo il 15 ottobre, un'assemblea pubblica per guardare avanti
20 / 10 / 2011
Sono già moltissimi i commenti delle singole realtà e individualità che, a nome proprio, stanno ricostruendo e interpretando gli accadimenti avvenuti nella manifestazione del 15 ottobre. Queste prese di parola compongono un quadro molto differenziato ma ancora incapace di proporre un punto di vista comune in grado di rilanciare una nuova fase di movimento. Partiamo dunque da qui, dalla necessità di ricostruire una discussione pubblica di movimento che punti ad assumere per intero, senza reticenze e opacità di comodo, la problematicità dei fatti accaduti nella manifestazione di sabato a Roma, guardando però alla strada che dobbiamo costruire in avanti.
Una discussione pubblica, però, non è affatto un contenitore vuoto e indeterminato. Si costituisce a partire da alcune premesse preliminari e discriminanti. Se non ci si intende sulle premesse, meglio non discutere.

La manifestazione del 15 ottobre ha dimostrato che le lotte che in questi ultimi anni si sono date in Italia contro la crisi economica hanno avuto la forza di aprire uno spazio di movimento potenzialmente maggioritario nella società, capace di parlare a milioni di persone. L’enorme partecipazione e la variegata composizione sociale che l’ha animata stanno lì a dimostrarlo. La manifestazione del 15 non è mai stata, se non nella testa di componenti minoritarie, schiave della loro mediocre identità, il campo di contesa per le rappresentanze di movimento. È stata, come nel resto del mondo, il punto di convergenza e di proliferazione dei conflitti contro la dittatura finanziaria.

È questo spazio comune, conquistato dalle lotte, ad esser stato preso di mira e in ostaggio, tanto dall’azione di gruppi che hanno esplicitamente messo in pericolo, senza alcun senso politico, lo svolgimento della manifestazione, quanto dal comportamento delle forze dell'ordine che hanno attaccato in modo indiscriminato, costringendo le persone che si trovavano a Piazza San Giovanni a difendersi come potevano.
La restrizione degli spazi di agibilità democratica, così come la delazione di massa sui social network sono l’effetto, politico e sociale, della chiusura di questa possibilità di comporre la molteplicità dei punti di vista, delle forme di conflitto e di espressione.
Noi questo spazio dobbiamo riaprirlo!
Innanzitutto respingendo in modo categorico la riedizione, fuori tempo massimo, del dibattito sulla violenza e la non violenza. Per noi quello che distingue una pratica da un’altra è la sua capacità di modificare lo stato di cose presenti, di connettere, di allargare il consenso e creare le condizione per un’altra società. Da qui si riparte. Dalla constatazione, realistica, che i movimenti sono oggi maturi per definire un nuovo processo costituente, fatto di una radicalità in grado di costruire istituzioni sociali incentrate sulla democrazia dei beni comuni.
Non lasceremo a nessuno la possibilità di ridurre tutto questo: è la stessa maturità dei movimenti del presente a necessitare oggi più che mai di definire, da sé, la sua capacità di autodeterminarsi, di stabilire i suoi criteri di legittimità.
Per questo lanciamo un’assemblea pubblica, venerdì 21 ottobre presso il Cinema Palazzo, Sala Vittorio Arrigoni, piazza dei Sanniti, 9/A dalle ore 17. Per rilanciare insieme ed uscire dalla morsa che stringe il nostro futuro.
Action – diritti in movimento, Angelo Mai Altrove, Anomalia Sapienza/UniCommon Roma, Assemblea di Medicina (Sapienza), csa Astra, csoa Corto Circuito, Esc – atelier autogestito, Horus Project, Point Break – studentato occupato e autogestito, csoa La Strada, csa Onda Rossa 32, RadioSonar, csoa Sans Papiers, csoa Spartaco, Strike Spa

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lunedì 17 ottobre 2011

Fincantieri, ad Ancona presidio permanente fino al 24 ottobre

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Gli operai della Fincantieri di Ancona sono da oggi in “presidio permanente" davanti ai cancelli dello stabilimento all'Arsenale, dove ci resteranno almeno fino al 24 ottobre, quando è previsto, a Roma, il tavolo nazionale che si occupa della crisi dell'azienda. Il cantiere è, dunque, bloccato dall'esterno e i sindacati stanno verificando la possibilità di alcune deroghe per l'ingresso di alcune persone della direzione, degli addetti alla sicurezza e degli amministrativi, «in modo da garantire - ha spiegato il segretario della Fiom Marche, Giuseppe Ciarrocchi - l'operatività minima necessaria, sia sotto gli aspetti della sicurezza che per quanto riguarda la formulazione delle paghe dei lavoratori». Ogni altra attività è bloccata e, nella tarda mattinata, i lavoratori si riuniranno nuovamente in assemblea per definire i turni e le rotazioni al presidio esterno. In mattinata i sindacati incontreranno il prefetto di Ancona, Paolo Orrei, insieme al sindaco del capoluogo dorico, Fiorello Gramillano. «Il prefetto conosce bene la nostra situazione - ha spiegato Ciarrocchi - e a lui illustreremo gli ultimi sviluppi e la nostra decisione di bloccare il cantiere». Ma in prefettura si parlerà anche dell'ordine del giorno, approvato venerdì scorso dal consiglio comunale di Ancona, che impegna le istituzioni locali a spingere perchè Fincantieri porti subito ad Ancona il progetto di realizzazione di una nuova nave. «Bisogna avviare subito lo start up - ha ribadito il leader della Fiom regionale -. Al prefetto chiederemo che anche lui faccia la sua parte e ci aiuti a sbloccare la situazione: ci vuole un atto concreto da parte di Fincantieri, che deve dare avvio alla realizzazione della nave annunciata e che finora è stato oggetto del ricatto ai lavoratori: se non lo fa, vuol dire che quel progetto non è mai esistito». Ad Orrei, sindacati e sindaco evidenzieranno anche gli aspetti legati alla tensione che si è creata tra i lavoratori e alle possibili conseguenze sull'ordine pubblico.

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Mezzo milione di indignati, ostaggio dei teppisti

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Sono arrivati a Roma in mezzo milione, almeno. La dispersione in tanti rivoli, dovuta all’esito del corteo, rivelava ancora di più la portata dei manifestanti. Non doveva essere una festa.
L’indignazione, di per sé, non rimanda a dinamiche ludiche ma alla crudezza della crisi e della polverizzazione sociale che produce. Ma le messe in scena di guerriglia, le colonne spettrali di fumo, le carcasse annerite di automobili, spesso non di lusso, restate impigliate al passaggio di pezzi di corteo lasciano una domanda inevasa: di chi è un corteo? Domanda che diventa ancora più urlata se sotto le colonne di fumo nero si sente la gente che strilla “fascisti, smettetela, via
dal corteo!” a giovanotti che si prendono molto sul serio mentre, avvolti dai cappucci d’ordinanza, danno fuoco a cassonetti di immondizia. Davvero è sufficiente etichettarli come infiltrati? Non doveva essere una festa ma doveva essere una presa di parola di massa tant’è che non s’era costruito un palco centrale per dare modo di attivare sei speak corner nella grande
S.Giovanni dove improvvisare assemblee all’aperto e, magari, mettere le tende - qui e là, lungo il percorso, per discutere di come rendere permanente una mobilitazione che altrimenti
sarebbe stata solo una passeggiata innocua tra i Fori o il grottesco carnevale del riot. Tra il nero del fumo sbuca un grappolo di palloncini colorati che regge una scritta “Il fine non giustifica i mezzi” e si “suicida” lontano, altissimo, nel faticoso tramonto romano.
 
Che fosse una babele di linguaggi s’era capito, già in fase di preparazione dall’articolazione del coordinamento nazionale - consapevole sia di non rappresentare l’intero corteo sia
di non potere e volere fare “sintesi” - e dalla pluralità di voci che si sono udite per le strade di Roma finché il rumore delle cariche non s’è fatto colonna sonora dell’indignazione. Ma
dentro la babele si riusciva a leggere che «finalmente - diceva Franco Russo - tutti conoscono il volto dei poteri forti: quello di Draghi e di Trichet, della Bce, oltre che del governo». Fino ad allora c’era chi marciava a ritmo di samba, chi urlava “vergogna”, chi “no alla violenza”, chi si acchittava il bavero nero come la felpa e il cappuccio, chi prometteva scioperi e chi rivendicava servizi e welfare per tutti e nessuna Tav. C’era, in strada, chi sogna “10, 100, 1000 Tahir”, chi lo ha scritto anche in arabo, chi portava la voce di territori martoriati o generazioni martoriate dalla macelleria sociale. C’erano precari di ogni tipo e di ogni età. «Ho 29 anni e sto in un call
center come tutti quelli della mia generazione», dice l’aquilano Paolo e, quando gli chiedo della sua città si limita a dire che sarebbe «la stessa intervista di due anni fa». «Noi siamo operatori sociali e cooperative - spiega Roberto Latella del Social pride romano - quel pezzo di lavoro precario che opera tra i soggetti più colpiti dalla crisi, il nostro settore è alle prese con tagli del 50%». «L’indignazione c’è perché il profitto viene prima delle persone - dice Simona Ricotti, No Coke di Civitavecchia - noi abbiamo deciso che non deleghiamo più il nostro futuro». Lo avrebbe detto anche da un camion di S.Giovanni, Simona, se solo avesse potuto e non fosse rimasta
incastrata tra il riot e la reazione delle polizie impazzite. Per la prima volta a
memoria di manifestante i blindati con gli idranti si sono messi a scorazzare a cinquanta all’ora per la storica piazza finale delle grandi manifestazioni. Solo il coraggio di un prete di
S.Giovanni, che apre i portoni ai fuggiaschi, riduce il rischio di un massacro “genovese”. Mentre i blocchi neri e quelli blu continuano a fronteggiarsi, il grosso del corteo riesce a svicolare verso il Circo Massimo, poi giù alla Piramide, poi verso il centro per tornare ai pullman. Gli studenti tornano verso la Sapienza da dove erano partiti in mattinata. Notizie di scaramucce si inseguono fino a sera, incerto il bilancio dei feriti mentre arrivano voci di rastrellamenti tra chi torna
a casa con l’aria losca. Tutto da scrivere quello politico.
 
«Sto marciando verso Piazza Re di Roma non so nemmeno perché - dice Raffaella Bolini dell’Arci che ha preso parte al comitato promotore - il punto è che era una giornata per riprendersi le piazze, potente e bellissima, ma è stata colpita da pratiche di segno opposto ma convergenti nel togliere spazio a mezzo milione di persone. Ciascuno avrebbe potuto esprimersi nei modi che riteneva opportuni, ma una minoranza ha negato questa possibilità a decine di migliaia di
manifestanti e anche la polizia ha perso la testa. Ma a casa non si torna». «Il punto è che mezzo milione di persone è sceso in piazza contro la Bce e il governo - dice anche Paolo Ferrero,
segretario del Prc - ma la manifestazione è stata vittima sacrificale di qualche incappucciato e di una gestione assurda dell’ordine pubblico». Anche i giuristi democratici parleranno in serata
di un corteo che «sembrava preso in ostaggio». «Servono questi gesti?» si domanda in piazza S.Giovanni, Paolo Beni presidente dell’Arci mentre i Cobas e il gruppo di contatto provano a stabilire un cordone per difendere il corteo dalle modalità da stadio.
«Non è che l’inizio - dice anche Alfio Nicotra, di Rifondazione comunista - ma dobbiamo capire insieme come possa davvero aprirsi lo spazio pubblico che tutta questa gente reclama».
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domenica 16 ottobre 2011

I draghi ribelli invadono Roma

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Se gli stati nazionali vengono oscurati da una crisi epocale, se i governi rinunciano alla loro autonomia passando il testimone a poteri transnazionali, se la politica si consegna alla finanza, se una cupola che nessuno ha eletto può decidere il destino di miliardi di persone, la sfida non consiste nel cambiare governo ma nel cambiare lo stato di cose presente.
Allora, tanto vale tenersi Berlusconi? Non lo pensa nessuno degli indignati italiani che oggi riempiranno le strade e le piazze di Roma per rivendicare un altro ordine da quello preteso da Bce, Fmi, Standard&Poor's e via finanziarizzando. Ma il bibliotecario senza biblioteca, l'attore senza teatro, il metalmeccanico senza fabbrica, lo studente senza scuola e l'insegnante senza cattedra, il terremotato senza casa, tutti diversi tra di loro e tutti unificati da una condizione di precarietà, sanno benissimo che, in Italia, la caduta del peggior governo della nostra storia repubblicana rappresenta soltanto il primo, fondamentale e inevitabile passo. E sa - lo sapeva anche prima dell'ennesimo voto prezzolato di ieri mattina in Parlamento, o di quello del 14 dicembre del 2010 - che la caduta di Berlusconi non può essere delegata ai deputati, ai senatori, ai partiti. Solo un movimento forte, determinato, portatore di una proposta e di una visione alternative può liberarci dell'incubo che ci toglie il sonno. Quel movimento che ha capito il senso e il fine della lettera della Bce al governo italiano non ci sta, e si trasferisce in via Nazionale. Quel movimento che ha capito l'insidia dell'articolo 8 della manovra economica: non serve essere un lavoratore dipendente per comprendere che colpendo chi ha qualcosa si cancellano speranza e futuro di chi non ha nulla - lavoro, reddito, diritti, cittadinanza.
Le centinaia di migliaia di uomini e donne che in Italia, come a milioni in 82 paesi e quasi 1000 città del globo, grideranno la loro indignazione, sanno che la caduta di Berlusconi è solo la prima vetta da scalare perché guardano fuori dai loro luoghi di lavoro e non lavoro. E vedono tanti e tante come loro, con la stessa rabbia, la stessa rivendicazione di diritti cancellati o negati in un'Europa frastagliata in differenti governi, ma unita dalle ricette liberiste alla crisi provocata dal liberismo. L'ossessione del debito sta accecando governi, politica, classi dirigenti di destra e di sinistra o quasi. Dire che il movimento degli indignati rappresenta l'antipolitica vuol dire non aver capito, o nascondersi, la natura di quella che chiamiamo politica ma è solo autoreferenzialità, privilegio, delega, complicità con i poteri forti, subalternità al pensiero unico, adesione non solo alle ricette di Draghi e Trichet ma anche alla loro pretesa di imporre il modo con cui azzerare il debito, decidendo chi affondare e chi salvare. Una ricetta intesa a salvare solo ricchi, ceti e caste da ingrassare con i diritti, i salari, il lavoro, la dignità strappati alla maggioranza della popolazione.
Tutto il mondo è indignato, ma indignarsi non basta. In tanti lo sanno, già senza che qualcuno glie lo spieghi. In tanti e tante hanno capito che per battere il dragone bisogna rifiutarsi di partecipare alla guerra tra poveri finalizzata a dividere tra loro le vittime della dittatura della finanza per sbrarle meglio. Parlare oggi di garantiti e non garantiti è un gigantesco imbroglio. Credere che togliendo qualcosa a chi «ha troppo» si aiuti chi non ha, è, se va bene, un'ingenuità. La politica dei due tempi finisce sempre al termine del primo. Chi ha il contratto regolare, chi è precario, chi non ha alcun contratto, chi ha un lavoro nero e chi neanche quello, chi è nativo e chi è migrante: tutta carne da macello per sfamare il drago. Riunificare le lotte, nelle fabbriche e negli uffici, nelle scuole e nei call center, in teatro e nei laboratori di ricerca, è la strada imboccata in Italia a partire dalla rivolta degli operai di Pomigliano, diventati un modello di dignità per tutte le persone e i soggetti non fagocitati o pacificati dal berlusconismo. Da questa esperienza, da questa unità sgorga un primo embrione di alternativa sociale, culturale, ambientale, politica.
Neanche per noi - a Genova si diceva «voi 8 noi 6 miliardi», oggi a New York come ad Atene, «siamo il 99%» - è praticabile la politica dei due tempi: oggi l'indignazione, domani l'alternativa; prima abbattiamo Berlusconi poi pensiamo all'ordine mondiale. Guarda il dito e non la luna chi si turba per la mancanza di educazione di questo movimento frastagliato, persino un po' confuso, certamente generoso, alla ricerca non di cariche e di posti al sole ma di una speranza di futuro, costruito insieme abbattendo steccati e scavalcando recinti. Guarderebbe il dito e non la luna anche chi volesse tentare di mettergli addosso cappelli e targhette, o scambiando la costruzione di una storia comune per un campo di battaglia in cui scaricare le frustrazioni.
I capitali, finanziarizzati, si sono globalizzati, quel proletariato che un tempo non aveva nazione non può pensare di cavarsela, ognuno rinchiuso nel suo guscio, nella sua lotta, nella difesa del «suo» bene comune o della sua valle. L'operaio dei cantieri di Monfalcone non riuscirà a salvarsi accettando che venga sottratto il lavoro al suo compagno di Genova, quello di Termini prendendosela con le tute blu di Tychy. In Italia gli indignati, anche se non si chiamavano così, hanno una storia lunga e articolata. Nelle aseemblee di questi mesi studenti e precari hanno capito che il contratto dei meccanici li riguarda e gli operai della Fiom si battono per il reddito di cittadinanza. E gli attivisti dei beni comuni, i pacifisti, gli ambientalisti hanno incrociato studenti e lavoratori, pensionati e no Tav. Un' alternativa è possibile. Nelle strade di Roma oggi sfileranno embrioni di politica.

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venerdì 14 ottobre 2011

Verso il 15 ottobre. Intervista a Paolo Ferrero (Prc): "Evitare di cadere dalla padella alla brace. Occorre un movimento antiliberista di massa"

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Controlacrisi.org intervista Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione Comunista.

Nella direzione nazionale di Rifondazione Comunista giungono notizie sempre più positive per la manifestazione di sabato. Saranno in migliaia le compagne e i compagni vicini al partito e alla FdS che si preparano a raggiungere Roma, consapevoli di ritrovarsi forse alla prima tappa di un percorso di cambiamento molto radicale non solo nel Paese. Paolo Ferrero, segretario del Prc, giudica molto importante l’impegno del partito in questa mobilitazione, tanto nella sua espansione del 15 ottobre quanto nel radicamento nei territori.«Il problema che abbiamo in Italia è quello di non cadere dalla padella alla brace. Dobbiamo riuscire a cacciare Berlusconi ma non dobbiamo permettere che si costituisca un governo senza che cambi la sostanza del proprio operato. Per questo occorre costruire un movimento antiliberista di massa e lavorare affinché diventi anticapitalista. La crisi è del liberismo e solo uscendo da questo si può determinare una soluzione della crisi. Non basta prendersela contro questo o quel leader, dobbiamo affrontare l’origine del problema. Perciò siamo interessati a costruire unitariamente un movimento che deve sedimentarsi nei territori e divenire punto di aggregazione di massa».
Su quali prospettive secondo te?
«Affinché possa proseguire credo occorrano due elementi fondamentali. Innanzitutto la democrazia e la partecipazione. Non è casuale che ad aprire la manifestazione di sabato ci siano esponenti di vertenze in corso, e poi realtà come i comitati per l’acqua e il movimento della Val di Susa. Rappresentano una istanza di democrazia e della partecipazione dal basso e che mirano agli interessi e al potere del popolo intero. Anche per questo noi proporremo un referendum per l’abolizione dell’Articolo 8 della manovra e della Legge 30 sulla precarietà. Il secondo elemento riguarda il fatto che questo movimento deve poter decidere e mantenere una autonomia dal quadro politico. La sua costruzione deve restare indipendente dalle dinamiche ristrette, non deve piegarsi sulle elezioni cercando la propria soluzione in questa o quella lista. Il punto che secondo me deve essere posto è quello di una strategia di allargamento degli spazi di democrazia».
Ma sono molto diffuse nel movimento le posizioni di chi rifiuta la presenza dei partiti, avverte la distanza dalla politica e si sente irrappesentabile
«Si tratta di una distanza che è frutto della distruzione che si è operata della democrazia attraverso il bipolarismo e attraverso partiti che non fanno il loro mestiere. Una questione seria a cui ognuno deve dare una risposta. Il nostro rapporto con i movimenti vuole essere quello di esserci costantemente e coscientemente sottolineando la necessità di autonomia ed evitando ogni forma di strumentalizzazione. Ogni volta che si partecipa devono essere chiare e dichiarate le ragioni per cui si è presenti».
L’appello del Coordinamento 15 ottobre è breve e denso. Quali sono le ragioni per cui il Prc ci si riconosce?
«Per noi il senso è abbastanza semplice: o l’Europa cambia politica e non si deve pagare il debito. Pagare significa essere macellati e finire come la Grecia. Non lo diciamo per uscire dall’euro. L’obbiettivo è costringere l’Europa a cambiare politica ma perché cambi realmente non si può restare nelle regole già dettate. Sono regole fatte per mantenere lo status quo, è per questo che da queste regole bisogna uscire».

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Referendum su Ilva Riva ricorrerà davanti al giudice

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Come un spettro, il referendum sulla chiusura dell’Ilva aleggiava, ieri a Roma, sopra le teste di chi ha partecipato all’incontro tra il Gruppo Riva e i sindacati metalmeccanici: Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm. Il fantasma si è materializzato nelle parole dei dirigenti dello stabilimento siderurgico, quando hanno confermato il ricorso alla magistratura ordinaria per bloccare la consultazione proposta dal comitato ambientalista «Taranto futura». Dopo il via libera del Consiglio di Stato, due giorni fa, è tornata a galla una certa «ansia» in chi ritene le acciaerie tarantine strategiche per i propri destini d’impresa al punto da non poter immaginare né di fare a meno dello stabilimento né di ridimensionarlo, chiudendo l’area a caldo. Si aprirà un nuovo capitolo nella lunga querelle giudiziaria, prima davanti al giudice amministrativo, ora di fronte a quello ordinario, nella storia di un voto che finora sembrava doversi negare alla Storia, che suscita reazioni contrastanti, «stati emotivi» di cui il Gruppo Riva percepisce il peso, la densità, nel subconscio collettivo di tutti gli attori: la fabbrica e i lavoratori, la classe dirigente, la città. «È stato detto apertamente - ha dichiarato il segretario organizzativo della Fiom Cgil Stefano Sgobbio - che il referendum preoccupa.

I timori aziendali sono legati soprattutto a quella che potrebbe definirsi una spada di Damocle tale da condizionare l’andamento stesso delle attività lavorative», cioè l’ansia spasmodica del referendum sulla chiusura e il dibattito rovente che ne seguirebbe. Facile immaginare, di nuovo, Confindustria e sindacati (Cgil e Cisl) al fianco della causa anti-referendaria magari con un altro ricorso al giudice ordinario. «In realtà bisogna battersi - ha spiegato ancora Stefano Sgobbio - perché l’azienda acceleri sugli investimenti per l’eco-compatibilità degli impianti siderurgici previsti dall’Autorizzazione integrata ambientale. Segnali positivi sono giunti dall’incontro. Gli interventi vanno anticipati. L’Ilva ha espresso il timore che lavorare diventi difficile di fronte a un’opinione pubblica che vuole la chiusura dello stabilimento».

Per il resto, l’incontro di ieri a Roma non ha riservato sorprese. L’azienda non farà ricorso alla cassa integrazione, almeno in questa fase, malgrado il mercato mondiale dell’acciaio sia di nuovo in flessione e gli effetti si stiano facendo sentire con una contrazione delle commesse. Due i punti critici analizzati dall’Ilva: la contingenza economica e la mancanza di liquidità finanziaria dei clienti. Il Gruppo Riva continuerà comunque a produrre superando il risultato dello scorso anno di 7 milioni circa di tonnellate di acciaio (a ottobre erano già 6 milioni e 450mila). Resta il campanello d’allarme, anzi la campana, suonata ieri e ascoltata dai sindacati. La fase di incertezza non risparmia la siderurgia tarantina, nella logica del mercato globale. Da oggi si torna a vivere alla giornata. Del doman non v’è certezza.

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venerdì 7 ottobre 2011

Intercettazioni, carcere per i giornalisti

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Il Pdl si irrigidisce sul ddl intercettazioni e salta la mediazione con il Terzo polo. Il testo voluto dal governo prevede il divieto di pubblicazione fino all’udienza filtro e il carcere per i giornalisti. La relatrice Giulia Bongiorno si è dimessa in polemica con la maggioranza dopo il sì alla norma che rende impubblicabili gli "ascolti" fino al momento dell'udienza filtro, cioè fino a quando avvocati e magistrati selezionano le registrazioni essenziali per dimostrare la colpevolezza o l'innocenza escludendo le parti superflue.
«Sulle intercettazioni è probabile che metteremo la fiducia»: lo ha detto stamattina Massimo Corsaro (Pdl) nel corso di Omnibus, su La7. «La posizione del Pd rispetto al ddl intercettazioni - ha proseguito Corsaro - è strabica e strumentale. In nessuna parte del provvedimento si parla, infatti, di blocco nei casi di mafia, terrorismo o situazioni di grave allarme sociale. Quel che si vuole - spiega - è eliminare la gogna mediatica come strumento di lotta politica». Si tratta, ricorda, di un «obiettivo condiviso dal centro-sinistra quando era al governo, tanto che lo inserì e lo votò nella versione del ddl Mastella. La verità è che, ancora una volta, in mancanza di valide e credibili argomentazioni politiche, il Pd spera di utilizzare le intercettazioni come scorciatoia per abbattere Berlusconi e il suo governo».
Carcere per i giornalisti. Anche per chi pubblica le intercettazioni considerate irrilevanti scatterà il carcere fino a 3 anni. È quanto prevede un emendamento che ha ricevuto il parere favorevole del governo e che è stato approvato in Comitato dei Nove della Commissione Giustizia della Camera. L'emendamento, firmato da Manlio Contento, introduce nella norma del ddl intercettazioni che riforma l'art. 617 del Codice di procedura penale anche le intercettazioni cosiddette «irrilevanti».
Nel testo, ora all'esame dell'Aula, si prevedeva già il carcere da 6 mesi a 3 anni per chiunque avesse pubblicato atti di cui era stata ordinata la distruzione o che dovevano essere espunti, o intercettazioni contenute nell'archivio segreto. Contento propone di inserire in questa previsione anche le intercettazioni considerate irrilevanti. Ma su questo l'opposizione ha già annunciato battaglia: «domani nella prossima riunione del Comitato dei Nove - avverte il capogruppo del Pd, Donatella Ferranti - presenterò un subemendamento per evitare che anche le intercettazioni irrilevanti rientrino nella fattispecie dell'articolo 617. Mi sembra assurdo che per loro sia prevista una condanna così dura».
«Il ddl serve a far diventare il nostro paese normale perché le intercettazioni sono usate indipendentemente dai processi». Così Umberto Bossi, conferma il proprio sostegno al testo in discussione alla Camera. A chi gli chiedeva se il governo ricorresse alla fiducia ha risposto: «passa anche senza».

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La scuola di nuovo in piazza: «Lottiamo per il futuro»

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Almeno duemila studenti delle scuole superiori stanno manifestando a Roma per rivendicare i diritti della scuola pubblica contro la crisi. E si registrano momenti di alta tensione tra gli studenti e le forze dell'ordine che hanno bloccato il corteo per non consentire ai tanti di arrivare a viale Trastevere sotto il Ministero. La manifestazione, inizialmente diretta verso il ministero della Pubblica istruzione a viale Trastevere, ha deviato sul Lungotevere di Ripa Grande. Gli studenti sono comunque decisi:  «Tutti insieme facciamo paura». Gli studenti bloccati sul lungotevere Ripa Grande stanno gridando direttamente ai poliziotti che bloccano percorso sul lungotevere. «Stiamo lottando anche per il futuro dei vostri figli», gridano ai celerini chiedendo di sgombrare la strada e ricordandogli che in altri paesi le forze dell'ordine hanno preso le difese di chi lotta per i propri diritti.
Gli studenti bloccati dalle forze di polizia su lungotevere Ripa Grande hanno deciso di fare dietrofront e tornare sui propri passi per raggiungere, secondo il percorso stabilito, il ministero dell'Istruzione. Dopo aver chiesto ripetutamente a poliziotti e carabinieri che con i propri mezzi bloccavano la carreggiata, di lasciarli passare e dopo aver lanciato alcuni palloncini pieni di vernice colorata, hanno deciso di girarsi e tornare al percorso originario.
I manifestanti che stanno sfilando in corteo a Roma hanno occupato i binari del tram in viale Trastevere bloccando alcuni mezzi pubblici, in particolare quelli della linea 8. Dopo aver sfilato e 'ignoratò la sede del ministero, gli studenti hanno proseguito e sono diretti - hanno detto - verso la stazione di Trastevere. Anche il traffico è in tilt.
Un'auto blu è stata assaltata con calci e sputi da alcuni studenti in corteo a Roma. L'auto è stata bloccata per alcuni minuti dai manifestanti poi è riuscita ad uscire dal corteo. L'episodio si è verificati nei pressi della stazione metro Piramide, al quartiere Ostiense. Gli studenti del corteo di Roma hanno bloccato per alcuni minuti la Stazione Ostiense, uno snodo ferroviario cittadino che ospita la fermata della metro e vi transita la ferrovia Roma-Lido e le ferrovie regionali. Nel blitz sono stati tirati fumogeni e distrutti cartelloni pubblicitarie. Gli studenti hanno occupato alcuni binari.
A Milano gli studenti del Coordinamento dei collettivi hanno tentato di fare irruzione nella sede italiana dell'Agenzia di rating Moody's, in corso di Porta Romana a Milano. Secchiate di vernice e uova hanno imbrattato l'ingresso degli uffici, mentre alcuni ragazzi hanno provato a entrare, venendo però bloccati nell'atrio. L'agenzia, protagonista dell'ennesimo 'downgrading' del giudizio sull'Italia, è diventata l'obiettivo di uno dei due tronconi del corteo studentesco milanese che si era diviso in precedenza. Momenti di tensione davanti alla sede della Regione Lombardia, quando uno dei due tronconi del corteo studentesco di questa mattina a Milano, arrivato sotto al Pirellone, ha tentato di forzare un cordone di carabinieri in tenuta antisommossa che voleva impedire loro di bloccare l'incrocio stradale. I militari hanno reagito con alcuni colpi di manganello per fare desistere i manifestanti che spingevano con alcuni 'scudì di polistirolo indossando caschetti da cantiere. La situazione è poi ritornata alla normalità. Il corteo molanese è finito. Gli studenti si sono dati appuntamento per un'altra manifestazione venerdì prossimo alle 9.30 a largo Cairoli a Milano.
A Palermo il corteo degli studenti medi dopo aver sfilato per le vie del centro storico di Palermo è entrato in Piazza Pretoria ed ha occupato Palazzo delle Aquile, sede del Comune di Palermo. I ragazzi hanno calato uno striscione dai balconi del Municipio con su scritto: «Te ne vai in barca con i nostri soldi mentre le nostre scuole cadono a pezzi, Cammarata Vattene!». L'iniziativa, spiegano gli organizzatori, serve a «rilanciare la protesta contro gli sprechi della gestione Cammarata volta sempre a speculare e mai a risolvere i problemi dei cittadini e degli studenti di Palermo».

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giovedì 6 ottobre 2011

Confindustria in frantumi Fuori anche le Cartiere

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Dopo la Fiat anche le Cartiere Paolo Pigna Spa, azienda leader in Italia nel settore cartotecnico, fondata nel 1870, uscirà da Confindustria. Ad annunciarlo Giorgio Jannone, Presidente e Ad della società. Ma sulla Fiat non si sopiscono le polemiche.  «Valuto l’uscita della Fiat da Confindustria - sostiene Sacconi - con preoccupazione. È un segnale di disgregazione, ci auguriamo si possa ricomporre la frattura nel segno di una funzione sindacale modernizzatrice del sistema imprese». «Abbiamo bisogno -ha aggiunto- di un sistema di imprese che sviluppi una forte evoluzione nelle relazioni industriali che si sono evolute ormai negli ultimi anni ma penso che queste si possano evolvere nella dimensione aziendale e territoriale». «Ma quale disgregazione: Confindustria è rappresentata per oltre il 90% da piccole e medie imprese, e quest’anno abbiamo avuto più di duemila nuove adesioni». Lo ha affermato, ancora, Vincenzo Boccia, presidente della Piccola industria di Confindustria, rispondendo alle parole del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. «Confindustria non è mai stata così forte e compatta - ha ribadito, lasciando i lavori del quinto Forum di Federexport in corso a Firenze - nella risposta a chi, in questi giorni, punta a dividere il mondo imprenditoriale». Jannone, presidente di Pigna e parlamentare del Pdl. Giorgio Jannone, presidente delle Cartiere Pigna che ha annunciato l’uscita dell’azienda da Confindustria, «è parlamentare di maggioranza e presidente della Commissione bicamerale di controllo sugli enti previdenziali, il che la dice lunga», ha aggiunto Vincenzo Boccia. «La scelta di uscire da Confindustria - tuona Camusso - è una scelta che non rispetta le regole di questo Paese» «Abbiamo da lungo tempo denunciato - ha spiegato ancora - una preoccupazione sugli obiettivi effettivi della Fiat. Non ci auguriamo che Fiat smetta di produrre in Italia però continuiamo a non capire cosa voglia produrre nel nostro Paese perchè -  continua Camusso- “Fabbrica Italia” sembra sempre più una chimera. La cosa che troviamo più grave è un governo che fa da sponda all’idea di togliere le regole e non ha l’autorevolezza di chiedere qual è il programma industriale del Lingotto», ha concluso, evidenziando che «il piano del Suv è andato e venuto tre volte da Mirafiori. I famosi grandi innovatori stanno tornando a ricette ottocentesche». L’uscita della Fiat da Confindustria è «uno dei passi più dirompenti che siano mai avvenuti e cambia drammaticamente i rapporti interni. Credo che al di là del peso economico sia una lacerazione che lascerà al nuovo presidente di Confindustria dei problemi molto gravi da risolvere» a dirlo ancora è Guidalberto Guidi, ex vice presidente di Confindustria, nella “Telefonata di Belpietro” su Canale 5. Per Guidi all’uscita di Marchionne ne seguiranno altre: «Tutto il mondo della componentistica dell’auto, anzi tutta la metalmeccanica». «Lo Statuto dei lavoratori andrebbe preso e buttato nel cestino» perché «ha gradatamente messo un virus che ha contagiato la capacità di fare impresa e quindi la competitività. C’è gente che lo dice, come Marchionne, e c’è gente che non lo dice ma lo fa, sostanzialmente non investendo più in Italia». Ha aggiunto Guidi. «Lo scontro, in punta di fioretto, tra Emma Marcegaglia e Sergio Marchionne, non è limitato, come si potrebbe pensare solo alle richieste che Fiat ritiene di avere visto respinte in materia di contratti e rappresentanze sindacali. Esso va oltre, perchè riguarda il ruolo stesso di Confindustria come rappresentante delle imprese industriali italiane, nella quale evidentemente Marchionne non si riconosce più. Ora ci aspettiamo che il Ministero dell’Economia chieda alle aziende di Stato di prendere atto di questa situazione e di uscire dalla Confederazione». Lo affermano in una nota congiunta i parlamentari della Lega Nord, Paolo Franco e Maurizio Fugatti delle commissioni Finanze di Senato e Camera.

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Moody's declassa l'Italia Fmi: «Economia mediocre»

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L'agenzia Moody's ha deciso di tagliare il rating dell'Italia, portandolo ad A2 con outlook negativo. Attualmente il rating sul debito sovrano dell'Italia era al livello di Aa2. Il 20 settembre scorso è stata Standard&Poor's a tagliare il rating dell'Italia portandolo da A+ ad A.  Moody's giustifica il taglio del rating dell'Italia col "sostenuto aumento della suscettibilità del Paese di fronte agli shock finanziari", dovuto al calo di fiducia nei confronti dei Paesi dell'Eurozona con un elevato debito pubblico. Poi aggiunge che il downgrade è dovuto "in parte ai rischi derivanti dalle incertezze economiche e politiche" e "in parte all'aumento dei rischi al ribasso per la crescita economica e all'indebolimento delle prospettive globali", nonchè al generale calo della fiducia nelle emissioni di debito dei paesi dell'eurozona. "Il rischio di default - aggiunge la nota - dell'Italia è remoto, ma la vulnerabilità di questo Paese è aumentata". Perché l'economia italiana "continua ad affrontare problematiche significative legate a debolezze economiche strutturali" che "non possono essere rimosse in fretta". "Questi problemi - principalmente la bassa produttività e rilevanti rigidità sul mercato del lavoro e dei prodotti - hanno impedito di raggiungere tassi di crescita maggiori nel passato decennio e continuano a pesare sulla ripresa". Palazzo Chigi parla di decisione attesa e sottolinea che il governo italiano sta lavorando con il massimo impegno per centrare gli obiettivi di bilancio pubblico. Quegli stessi obiettivi che sono stati oggi accolti positivamente e approvati dalla Commissione europea". Silvio Berlusconi prova a far dfinta di nulla. "Non cambia nulla - dice - andiamo avanti, stiamo lavorando sulle misure per la crescita". Altre fonti governative ricordano che oggi al vertice Ecofin c'è stato un giudizio positivo sui conti pubblici italiani. Ma per il leader del Pd Bersani "il declassamento è una mazzata. L'Italia è meglio di quel rating, ma se non c'è un cambiamento la sfiducia rischia di tirarci a fondo". Antonio Di Pietro dice che il "macigno" del governo del Cavaliere deve essere tolto dal futuro del Paese. Per questo aggiunge, "io che voglio le elezioni mi rivolgo al Capo dello Stato e gli dico di mandare un messaggio alle Camere perche' i parlamentari si assumano le loro responsabilità". Il fatto è che in campo è sceso anche l'Fmi. In Italia e Spagna "i più elevati costi degli interessi sul debito sovrano", assieme alle misure di aggiustamento dei conti pubblici e alle "aumentate tensioni sulle banche" costituiranno, secondo il Fondo Monetario Internazionale "ostacoli ulteriori su una attività già modesta". E' quanto si legge nell'introduzione al nuovo rapporto del Fondo monetario internazionale sulla situazione in Europa. Il fondo monetario giudica poi la politica del Paese dagli Anni 90 ad oggi. "Negli ultimi 20 anni la crescita in Italia è stata deludente a causa di riforme inadatte e incomplete, tasse troppo complesse, scarsa produttività del lavoro". Il documento consegnato dal Fondo alla Ue chiede poi maggiori sforzi per uscire dalla crisi. Ci sono al momento gradi divergenti nella ripresa e intravvede il rischio di un "rallentamento sincronizzato" dell'economia. Spagna, Italia e Gran Bretagna hanno registrato una performance timida, mentre combattono rispettivamente con un'alta disoccupazione, fondamentali strutturali deboli e con prospettive minime di entrate reali. Non è escluso che l'economia mondilae possa tronarein recessione nel 2012. In generale l'aumento del Pil dell'intera Europa sarà pari all'1,8 per cento nel 2012, in calo dal +2,3% di quest'anno, con un'inflazione in discesa dal 4,2 al 3,1 per cento, anche a causa del calo dei prezzi delle materie prime. Sull'Italia ha poi preso la parola, il responsabile del dipartimento europeo Antonio Borges, gettando un po' di acqua sul fuoco del documento. Il Belpaese è nella "giusta direzione" sulla correzione dei conti pubblici e il "problema fondamentale è la scarsa crescita, oggi non cresce affatto". Secondo Borges il caso italiano "è molto interessante perchè in passato c'erano governi che duravano molto poco eppure l'economia cresceva". E' vero che l'Italia "ha un debito molto alto, ma non dobbiamo dimenticare che l'avanzo primario è superiore anche a quello della Germania". Sarebbe necessario "che la stessa determinazione dimostrata sui conti pubblici l'italia la applichi sulla crescita economica".
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lunedì 3 ottobre 2011

Indignados a Wall Street, ma i media li ignorano

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Sulla spinta dell'esempio spagnolo e di quello nord africano da 12 giorni migliaia di persone provenienti da ogni parte degli Stati Uniti hanno dato vita a un movimento di occupazione simbolica di Wall Street. I media mainstream ne parlano poco (o niente), ma il movimento "OccupyWallStreet" sembra determinato a portare avanti questa protesta pacifica con tenacia e determinazione, nonostante gli interventi della polizia newyorkese che non ha lesinato l'uso della forza. Gli attivisti hanno piazzato le tende nello Zuccoti Park, ribattezzato "Liberty Square" e hanno creato un blog, una sorta di diario quotidiano della protesta dove è possibile trovare video e foto, oltre che un servizio di live streaming e tutte le informazioni sul presidio (https://occupywallst.org/). Tra gli slogan ricorrenti del movimento di "Occupa Wall Street" ce n'è uno in particolare che è diventato un po' il simbolo della protesta, tanto che gli attivisti di autodefiniscono così anche nei comunicati ufficiali: "We are 99%", "Noi siamo il 99%", a sottolineare il carattere popolare delle rivendicazioni, contro lobbies e corporation e contro lo strapotere del Dow Jones. "La cosa che abbiamo in comune è che noi siamo il 99% che non tollera più l'avidità e la corruzione dell'1%", dicono i manifestanti. Non sono mancati negli ultimi giorni anche volti noti nel presidio di "Liberty Square". Susan Sarandon e Michael Moore hanno portato il loro sostegno ai manifestanti, mentre Noam Chomsky ha annunciato la sua solidarietà. Ma nei giorni passati ci sono stati anche molti momenti di tensione con decine di arresti e cariche della polizia sui manifestanti. Ma, come detto, non sembra proprio che la protesta degli indignati d'oltre oceano stia volgendo al termine. Secondo alcuni tweet (#occupywallstreet) questa notte al presidio di Zuccotti Park hanno dormito in 1.500. E oltre a questo si assiste ad un "contagio" in altre città come San Francisco e Chicago, mentre a Boston i manifestanti hanno marciato fino alla Bank of America

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Fiat fuori da Confindustria

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Cara Emma, dal primo gennaio Fiat uscirà da Confindustria”. Firmato Sergio Marchionne. In una lettera indirizatta alla presidente degli industriali, l'ad Fiat conferma quello che da tempo era già nell'aria, ovvero che il principale gruppo industriale italiano uscirà dall'associazione degli industriali, con la conseguenza di avere le mani libere rispetto agli accordi interconfederali presi dalle parti sociali. Nella lettera che Marchionne ha indirizzato a Marcegaglia si legge: “Negli ultimi mesi, dopo anni di immobilismo, nel nostro Paese sono state prese due importanti decisioni con l'obiettivo di creare le condizioni per il rilancio del sistema economico. Mi riferisco all'accordo interconfederale del 28 giugno, di cui Confindustria è stata promotrice, ma soprattutto all'approvazione da parte del Parlamento dell'Articolo 8 che prevede importanti strumenti di flessibilità oltre all'estensione della validità dell'accordo interconfederale ad intese raggiunte prima del 28 giugno”. “La Fiat - prosegue Marchionne - fin dal primo momento ha dichiarato a Governo, Confindustria e organizzazioni sindacali il pieno apprezzamento per i due provvedimenti che avrebbero risolto molti punti nodali nei rapporti sindacali garantendo le certezze necessarie per lo sviluppo economico del nostro Paese. Questo nuovo quadro di riferimento, in un momento di particolare difficoltà dell'economia mondiale, avrebbe permesso a tutte le imprese italiane di affrontare la competizione internazionale in condizioni meno sfavorevoli rispetto a quelle dei concorrenti". "Ma con la firma dell'accordo interconfederale del 21 settembre - scrive ancora l'ad Fiat - è iniziato un acceso dibattito che, con prese di posizione contraddittorie e addirittura con dichiarazioni di volontà di evitare l'applicazione degli accordi nella prassi quotidiana, ha fortemente ridimensionato le aspettative sull'efficacia dell'Articolo 8. Si rischia quindi di snaturare l'impianto previsto dalla nuova legge e di limitare fortemente la flessibilità gestionale”. Marchionne ricorda che “Fiat è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale con 181 stabilimenti in 30 paesi” e “non può permettersi di operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato”. “Per queste ragioni - spiega Marchionne - che non sono politiche e che non hanno nessun collegamento con i nostri futuri piani di investimento, ti confermo che, come preannunciato nella lettera del 30 giugno scorso, Fiat e Fiat Industrial hanno deciso di uscire da Confindustria con effetto dal 1 gennaio 2012. Stiamo valutando la possibilità di collaborare, in forme da concordare, con alcune organizzazioni territoriali di Confindustria e in particolare con l'Unione Industriale di Torino. Da parte nostra, utilizzeremo la libertà di azione applicando in modo rigoroso le nuove disposizioni legislative. I rapporti con i nostri dipendenti e con le Organizzazioni sindacali saranno gestiti senza toccare alcun diritto dei lavoratori, nel pieno rispetto dei reciproci ruoli, come previsto dalle intese già raggiunte per Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco”. Il primo effetto della lettera di Marchionne sui mercati, nella quale si annuncia anche che nel 2012 partirà a Mirafiori la produzione di suv a marchio Jeep, è però negativo. In apertura di negoziazioni infatti il titolo del Lingotto è in deciso ribasso, cede il 3,52%.
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Il Nord scippa i fondi di Potenza per la metro

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POTENZA - Chissà, forse qualcuno a Roma avrà captato l’eco della polemica potentina: la metropolitana costa 200mila euro all’anno e viene sottoutilizzata. È il caso di risparmiare questi soldi? Se il sindaco Vito Santarsiero tergiversa, il Governo centrale non ci pensa su due volte e taglia. Taglia tutto. Santarsiero, sulla Gazzetta, nei giorni scorsi ha ammesso che il servizio oggi non è utilizzato in massa dai cittadini, ma ha invitato a pazientare, spiegando che con il progetto di potenziamento della metropolitana, già finanziato dal Ministero delle Infrastrutture, il capoluogo potrà presto contare su collegamenti migliori. Tre giorni dopo l’appello all’ottimismo arriva la doccia fredda. È lo stesso Santarsiero a comunicarlo durante l’ultima seduta del consiglio comunale: il Governo centrale avrebbe deciso di dirottare al nord il finanziamento di 11 milioni di euro previsto per Potenza. Il Comune lucano, lo ricordiamo, è risultato terzo (dopo Milano e Bologna) nella graduatoria degli enti ammessi al finanziamento dal ministero delle Infrastrutture per i progetti sulla mobilità: all’amministrazione potentina sono stati assegnati, per l’esattezza, 10,9 milioni di euro per il «Servizio ferroviario metropolitano hinterland potentino». Soldi che, come dicevamo, il Governo, alle prese con tagli, ritagli e frattaglie, vuole spedire al nord, magari spalmandoli sugli altri due progetti finanziati, quelli di Milano e Bologna. 

L’intero progetto di Potenza ha un valore complessivo di 18 milioni di euro, di cui il 40 per cento a carico del Comune (su fondi Pisus) e il 60 per cento a carico del Ministero. È previsto lo sdoppiamento del binario Rfi-Fal tra le stazioni di Potenza, Santa Maria e Macchia Romana, per «rendere la linea Fal il più possibile indipendente da quella Rfi», la realizzazione di due nodi di interscambio, di sottopassi per eliminare i passaggi a livello di via Angilla Vecchia e via Campania, la ristrutturazione delle stazioni e la realizzazione di tre nuove fermate (Parco Baden Powel, Ospedale e Gallitello), per un totale di 12 stazioni in città. 

«Il Pisus – aveva detto Santarsiero subito dopo l’ok del Ministero al finanziamento– si arricchisce di altri dieci milioni di euro, confermando da subito la bontà della strategia Potenza 2020. Avremo la possibilità nel settore della mobilità di risolvere problemi atavici della città». Soddisfazione bipartisan con l’on. Vincenzo Taddei (Pdl) che lo scorso 5 febbraio parlò di «un progetto strategico importante e dell’attenzione del Governo nazionale sul tema delle infrastrutture soprattutto nei trasporti e soprattutto nel Sud dell’Italia».
Parole clamorosamente smentite dagli ultimi fatti. 
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Incendio dentro Fenice a fuoco contenitori di rifiuti speciali

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LAVELLO - Ore di fuoco e fiamme. Fenice brucia. E non solo con i rifiuti speciali che ogni giorno vengono inceneriti. Fenice brucia anche per l’incendio che è scoppiato nella notte tra sabato e domenica. Una notte di fuoco e fiamme che è andata avanti per oltre sei ore, fino a quando i vigili del fuoco sono riusciti a domarle. Ad andare in fumo alcuni contenitori di solventi chimici che contenevano rifiuti speciali provenienti dalla Sata. Gli unici che al momento vengono inceneriti nel termovalorizzatore. 

Ancora in fase di accertamento la causa. Esclusa un’origine dolosa, però, secondo indiscrezioni, a provocare l’incendio sarebbe stata una fiammata di ritorno. 

La grande paura, dunque, è durata sei ore. Un lasso di tempo non certo breve, un lasso di tempo lungo per i cittadini che si sono accorti dell’episodio (pochi per la verità), per i tecnici della Regione intervenuti e per gli amministratori locali coinvolti. In ballo, infatti, non c’era solo la necessità di spegnere le fiamme ma soprattutto il timore che sostanze pericolose potessero riversarsi nell’ambiente. 

Per fortuna, secondo quanto assicurato dalla Regione e dall’Arpab, la situazione è rimasta sotto controllo. Questo anche perché la maggior parte dei fumi che si sono sprigionati dall’incendio sono stati aspirati dai forni rotanti che ci sono all’interno della stabilimento. Nessuna variazione preoccupante sull’aria è stata, poi, registrata sia dalle centraline della stessa società Edf Fenice, sia da quelle dell’Arpab. Insomma, i tecnici regionali rassicurano. Lo hanno detto ieri a chiare lettere ai rappresentanti delle Istituzioni coinvolte. Eppure, nonostante le rassicurazioni, l’episodio non ha mancato e non mancherà di suscitare preoccupazione tra i cittadini e gli amministratori della zona. Timori che sono esplosi proprio in quest’ultimo periodo grazie alle proteste del Comitato per la salute pubblica di Lavello e alle prese di posizione degli amministratori di Melfi e dello stesso Lavello. 
La notte di fuoco e fiamme di due giorni fa sarà, quindi, il nuovo tassello di una vicenda che agita l’opinione pubblica del Vulture-Melfese e forse dell’intera Basilicata. Un tassello che si inserisce nel mosaico di una settimana decisiva per il futuro del termovalorizzatore.
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sabato 1 ottobre 2011

In italia c’è una ingiustizia due capi ute liticano e non vengono licenziati perche?

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Giovanni Barozzino e Antonio Lamorte, delegati Fiom, e Marco Pignatelli erano stati licenziati esattamente un anno fa con la contestazione da parte dell’azienda di aver sabotato la produzione durante uno sciopero contro i carichi di lavoro. Il clima in tutti gli stabilimenti del gruppo era surriscaldato dalla durissima vertenza di Pomigliano. Poi i tre erano stati reintegrati. La Fiat, però, non li aveva riammessi in fabbrica, ma aveva corrisposto i salari e consentito ai due delegati l’utilizzo della saletta sindacale.
invece in questa settimana litigano due capo ute per mancanza produzione e la Fiat fa finta che non e successo nulla questa e una vera discriminazione non possimo accettare tutto questo siamo davvero sotto un regime fascista c'è  una inziustizia socilae non possiamo subire e pagare la grisi solo noi operai quando la crisi l’anno provocato le multinazionale. Noi operai chiediamo che i due capi ute vengono licenziati e non far finta di niente.

Giovanni Rivecca


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