Parla il figlio dell'uomo che denunciò la presenza di una
strana buca nel suo terreno
Nel 2007 una Procura lucana ordinava di ispezionare un
terreno. Scopo: trovare fusti di rifiuti tossici presumibilmente lì sepolti. Il
figlio del proprietario di quel terreno ci ha raccontato fatti e antecedenti di
quell’ispezione. E quella che oggi definisce una “sceneggiata”
A maggio del 2007 un sostituto procuratore della Repubblica
firmava un “decreto di ispezione”. Era la probabile conseguenza d’un
procedimento penale ancora aperto a carico di ignoti su un presunto
seppellimento di fusti radioattivi in Basilicata. Nel decreto c’è scritto che
“è necessario” procedere a un’ispezione di un terreno con l’ausilio di
personale dell’Istituto nazionale di Geofisica di Roma. Ometteremo il paesino
lucano dov’è il terreno e altri dettagli, per salvaguardare chi ha voluto farci
questo racconto. L’ispezione doveva “verificare la probabile presenza nel
sottosuolo” di fusti di rifiuti tossici. Per le indagini è delegata la Polizia
giudiziaria della Squadra mobile.
La buca e gli strani movimenti di tir. Il racconto del nostro
testimone è fatto di parole forti seguite ad anni di dubbi. Parole di un
cittadino come tanti che oggi definisce una “messinscena” l’indagine vissuta
direttamente nel 2007 sul presunto seppellimento di fusti tossici nel terreno
del padre. E “non chiara” la morte del genitore. Ci mostra quel decreto
d’ispezione. E con lui torniamo a tre anni prima che venisse emesso da una
Procura lucana. Precisamente alla mattina del 15 novembre 2004. Il signor
Gianni, chiameremo così il padre di chi ci ha raccontato questi fatti, esce di
casa per andare alla sua vigna. E da tanto che non ci va. Sono anni ormai che
non la frequenta più con la medesima assiduità. Poco prima che una brutta
malattia, un linfoma, lo colpisse. Quando arriva nota un’enorme buca di 50
metri di diametro il cui materiale di risulta, preciserà nella denuncia, era
stato “riposto ai margini della stessa”. Come se aspettasse d’essere ricoperta
il prima possibile. Solo un mese dopo, il 14 dicembre, deciderà di sporgere
formale denuncia ai Carabinieri del suo bel paesino nell’entroterra lucano. Lo
fa perché prima di rivolgersi a loro cerca di capire in maniera bonaria, come
era abituato per carattere, a risolvere la faccenda. Cerca di capire chi, e per
quale strana ragione, avesse fatto quell’enorme buca nella sua terra. “Dopo
averla trovata – racconta il figlio – mio padre s’allertò immediatamente”. E’
anche un po’ arrabbiato il signor Gianni. Pensa che a fare quel lavoro siano
stati i proprietari di un’azienda adiacente al suo terreno. Senza chiedergli
nulla hanno fatto come se fosse loro. Senza rispetto. Lì intorno, ricorda il
figlio oggi, negli anni si sono comprati molti altri terreni. E fanno un po’
come se comandassero. Gente strana, in paese si sa che hanno relazioni con la
malavita calabrese ed è meglio non averci a che fare. Il signor Gianni però,
decide a quel punto di contattare i proprietari dell’azienda. “In un primo
momento – prosegue il figlio – il padre dei proprietari disse che probabilmente
erano stati i suoi ragazzi e avrebbe chiesto. Poco dopo quando lo rincontrò
disse che non ne sapevano nulla. Dopodiché mio padre sporse denuncia”. E
precisa che “solo dopo la denuncia ai Carabinieri quello scavo fu trovato
ricoperto”. “A quel punto – continua il nostro testimone–, mio padre s’attivò
per capire cosa stesse succedendo e contattò anche un mandriano in zona, di cui
non mi fece mai il nome, tenendo fede a una parola data, perché lo stesso per
timore volle restare anonimo. L’uomo gli riferì che una notte aveva visto mezzi
pesanti che effettuavano dei lavori per conto del gasdotto in costruzione lì
vicino avviarsi verso il terreno di mio padre, e a un certo punto arrivarono
due camion, uno giallo e uno bianco”.
Le indagini sulla "terra di nessuno". Anche se dal ’99 la procura di
Potenza, e in particolare il sostituto Felicia Genovese, conduceva le indagini
sul presunto traffico illecito di sostanze radioattive che sarebbe stato in
essere negli anni ’80 nel Centro Enea di Rotondella, è solo nel 2003 che
assieme al Sostituto procuratore Giuseppe Galante della Dda, interrogano in
forma congiunta l’ex boss della ndrangheta Francesco Fonti. Da allora si può
ipotizzare siano stati al corrente delle dichiarazioni in merito a presunti
traffici e punti di seppellimento in Basilicata, nella regione che la
’ndrangheta, in un summit in Calabria, aveva definito “terra di nessuno”.
Affermazioni che nel 2005 l’Espresso rese pubbliche attraverso il “memoriale
Fonti”, dando inizio a quei sopralluoghi senza esito col pentito per trovare i
fusti in Basilicata. Il signor Gianni aveva denunciato la buca nel suo terreno
un anno dopo l’interrogatorio dei magistrati di Potenza al pentito, in quel
dicembre del 2004, e pochi giorni dopo la denuncia aveva scoperto quegli strani
movimenti notturni di camion lì intorno e che la ricopertura della buca. Ma è
solo nel 2007, dopo 3 anni in cui la denuncia resta in un anonimo nulla, che
viene emesso il decreto di ispezione da cui abbiamo iniziato questa storia.
La trasfusione che "non si doveva fare". Pochi mesi prima del decreto il
signor Gianni era stato contattato dai medici del San Carlo. “Una cosa strana”,
ricorda oggi il figlio, che si chiede perché quelle indagini vennero riprese
solo dopo la morte del padre. “Di solito – afferma – eravamo sempre noi a chiamare
per il controllo. Mio padre si recò per fare questa visita e decisero il
ricovero perché secondo loro c’erano valori che non andavano. Dopo due giorni
mi recai in ospedale di persona per chiedere come stesse. Mio padre mi disse
che volevano somministrargli una sacca di sangue. Il primario precedente lo
aveva sempre escluso perché per particolari fattori non poteva ricevere sangue.
Cercai così di capire come mai in quella occasione volevano invece effettuare
questa prassi prima sempre vietata, tanto che mio padre faceva delle cure molto
particolari. Ma non mi fu data risposta. In ospedale rimase mia madre e la mia
ex moglie. Il giorno seguente gli diedero questo sangue e la sera mio padre
prima si gonfiò tutto, poi andò in coma e infine morì”. Ricorda anche che
all’epoca la moglie aveva notato davanti la sala di rianimazione il nuovo
primario “parlare sottovoce e in modo sospetto con un altro uomo”, e credendo
che si riferissero al suocero s’avvicinò per chiedere spiegazioni sul perché
fosse entrato in coma. Ma non gli furono date, e a quel punto, innervosita da
questo comportamento, alzò la voce e venne minacciata dai due d’allontanamento.
Solo tempo dopo riconobbe in tv quell’uomo che parlava col primario e l'aveva
minacciata. "Era uno che contava al San Carlo di Potenza”. Il figlio del
signor Gianni dice che di quella sacca di sangue nella cartella clinica non fu
riportata né provenienza né autorizzazione a effettuare la trasfusione. Il
tutto motivato dai medici con un’urgenza che i familiari, invece, proprio
non vedevano.
Il sopralluogo "a metà". In quel 2007 comunque, solo dopo la
morte del padre e a tre anni dalla denuncia della buca, il figlio di Gianni
viene contattato dalla Polizia. Dissero che dovevano eseguire il sopralluogo
sul terreno sospettato d’essere interessato al seppellimento di fusti di scorie
provenienti da chissà dove. “Vennero per quel primo sopralluogo – racconta –
nonostante insistetti che era inutile perché data la pioggia che s’era
abbattuta non si poteva accedere. E diedero solo nell’occhio a tutti. Se quella
era un’indagine da tenere segreta certo chi poteva essere direttamente
interessato a mantenere anonima la cosa con quel comportamento era già
allertato. Comunque sul posto non arrivammo mai. Dopo qualche giorno vidi il terreno
di nuovo smosso. Allora chiamai subito il capo della Polizia che m’aveva
contattato per il primo sopralluogo. Nonostante le mie insistenze su questo
fatto strano, e che dovevano tornare subito per accertare cosa fosse accaduto,
m’assicurò che era tutto sotto controllo della magistratura. Non mi sarei
dovuto preoccupare. Passò poco tempo ancora e un giorno venni letteralmente
prelevato, tanto che ero per strada e dovetti lasciare i miei figli a una
persona lì vicino per andare sul sito con loro. Non capii perché visto che
pochi giorni prima mi era stato comunicato che era tutto a posto. Ricordo che
vennero con due macchine, non erano mezzi adatti e una si sfasciò per strada.
Con loro c’era un geologo di Roma che perse parecchio tempo a fare rilievi sul terreno
dove mio padre tre anni prima aveva trovato la buca, e lo strumento segnalò
qualcosa che non mi fu mai specificato per segreto istruttorio. A un certo
punto s’avvicinò il proprietario dell’azienda che stava vicino il terreno di
mio padre e disse che là c’era solo un pagliaio e lamiere. A me sembrò uno che
volesse mettersi sulle difensive. Quel pagliaio lo conoscevo sin da piccolo
perché ci giocavo, da quando non era sepolto, ed escludo la presenza di
materiali ferrosi. Il proprietario dell’azienda a quel punto si appartò con il
capo della polizia nel suo capannone. E si trattennero parecchio. Quando uscì i
ragazzi della polizia chiesero se dovevano continuare a cercare. Il terreno
dove era stata fatta la buca appariva come rimosso da mezzi pesanti e sul posto
era ancora presente la pala meccanica dei proprietari dell’azienda. Lo feci
notare ma mi dissero che avrei potuto solo denunciare il signore che lì l’aveva
lasciata. Io non lo ritenni opportuno, e dissi loro che non era quello il
problema per cui stavamo là e mi sarei messo solo in guai peggiori”. Rispetto
ai guai in cui si sarebbe cacciato sottolinea che lo zio del proprietario
dell’azienda vicino i terreni del padre aveva ricoperto negli anni passati un
importante incarico pubblico per il comune, ed era stato sposato con una donna
proveniente dalla Calabria con precedenti penali e contatti con la malavita
calabrese. “Il capo della Mobile – prosegue nel racconto del giorno
dell’ispezione – a quel punto fece una telefonata alla pm che aveva emesso il
decreto e poi ordinò ai suoi ragazzi di rientrare. Uno di essi si lamentò
dicendo ʽma è questo il modo? Vogliamo dare una risposta al signore?’. Allora
il capo mi chiese se ero contento di come avevano svolto le indagini e mi
limitai a ribadirgli il mio dissenso. Da allora non ho più saputo nulla. Per
questa storia coinvolgemmo l’allora assessore all’ambiente in Provincia.
Ricordo che s’adoperò facendo fare sondaggi aerei e fotografie per rilevare se
c’erano problemi. Ma anche in questo caso non ho più saputo nulla. So di certo
però, che subito dopo si dimise”. Conclude con un interrogativo il figlio del
signor Gianni, una domanda già sentita diverse volte in altri contesti lucani.
“In questo paesino – conclude – c’è gente che s’ammala ogni giorno di cancro,
nonostante viviamo in un posto dove l’aria è buona, non ci sono fabbriche e le
macchine che circolano sono davvero scarse. Come è possibile?”.