di Italo Di Sabato
Nell'ultimo mezzo secolo nel rapporto tra capitale e lavoro
ci sono stati tre capisaldi che hanno messo sulla bilancia del lavoratore un
peso che riequilibrasse tale rapporto: il contratto nazionale, la
rappresentanza sindacale e l'impossibilità di essere licenziati, se non per
giusta causa, nelle aziende sopra i 15 dipendenti (Art. 18). Di questi tre
capisaldi ne è rimasto concretamente solo uno ed è l'articolo 18 dello
Statuto dei Lavoratori. Il modello Marchionne ha spazzato via nel gruppo Fiat
sia il contratto nazionale che la Fiom, ormai esclusa da tutto. Il famigerato
art. 8 della manovra estiva del governo Berlusconi, che consente di fare
accordi “in deroga ai contratti e alle leggi”, ha invece ridotto di fatto a
pura forma tutti i restanti contratti nazionali dando la possibilità di
deroghe locali con la semplice firma di un sindacato compiacente e pilotato
interno all'azienda.
Questa premessa serve per capire quale sia il contesto in
cui si sta aprendo il dibattito sulla “riforma” del mercato del lavoro. Sul
piatto, oltre alla volontà di Monti e della Ministro Fornero a mettere mani
cancellando l'art.18, ci sono tre proposte, tutte di personaggi in area
PD o ex Cgil (Ichino, Damiano, Boeri) ma tutte ruotano intorno all'abolizione
totale o parziale dell'articolo 18 e tutte partono dalla scusa ufficiale che
il mercato del lavoro è duale, cioè c'è troppa differenza fra garantiti
(cassa integrazione, articolo 18, sussidio di disoccupazione) e precari a
vita. Vero, ma non si capisce perché per “riformare” ci sia bisogno di
togliere a chi ha per diventare tutti uguali senza niente in mano.
L'articolo 18, infatti, disciplina quello che succede nel
caso in cui un licenziamento sia dichiarato illegittimo e dunque, stabilisce
quello che succede quando un datore di lavoro licenzia senza motivo un
lavoratore. Se il motivo è giusto invece l'art. 18 non interviene e l'azienda
può licenziare il lavoratore come disciplinato dall'art, 2119 del codice
civile. Ma a parte questo viene spontanea una domanda: cosa c'entra l'art. 18
con la “riforma” del mercato del lavoro e quella degli ammortizzatori
sociali? Nulla, come quando ci propinano che con i contratti precari e
flessibili si sarebbe risolto il problema della disoccupazione giovanile e
invece era ed è uno strumento per abbattere il costo del lavoro e togliere
ogni tutela ai giovani stessi.
L'articolo 18 non è quindi un elemento che impedisce il
cambiamento, ma è solo la merce di scambio che governo, confindustria e
partiti conviventi vogliono per mettere mano alle storture e alle ingiustizie
di 15 anni di pacchetto Treu e legge Biagi. In linea generale la “riforma”
Ichino/Fornero mette sul piatto l'abolizione delle 40 tipologie di contratti
precari, con un contratto unico per tutti e l'allungamento del periodo di
copertura del sussidio di disoccupazione (4 anni, 90% dell'ultimo salario il
primo, e poi a scalare 80%, 70% e 60% negli anni successivi) più una buonuscita
pari a una mensilità di salario per ogni anno di anzianità aziendale (con un
tetto massimo). Ciò si applica solo a chi ha almeno un anno di anzianità
all'interno di una stessa azienda e se il disoccupato stipula un accordo di
ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli eroga il sussidio
(anche con proprie risorse, aggiuntivamente alle risorse provenienti dal
sussidio oggi a carico dell'Inps) e che ha interesse economico a sistemarti
velocemente il lavoratore in un nuovo contesto produttivo (quindi arriveranno
proposte continue anche di lavori mediocri e malpagati e in caso di rifiuto
c'è il rischio di perdita del sussidio). In cambio di questa “riforma”,
governo e confindustria vogliono l'articolo 18, cioè la libertà di licenziare
sempre e senza giusta causa, solo perché sei brutto o perché hai chiesto
qualcosa che ti spetta, o perché sei iscritto ad un sindacato che all'azienda
non piace.
Perché per loro è cosi importante questo articolo dello
Statuto dei Lavoratori? Perché è l'unica forza che ha il lavoratore per far
valere i propri diritti e bilanciare il rapporto di debolezza e
subordinazione che ha nei confronti dell'azienda. Infatti laddove non si può
applicare (aziende sotto i 15 dipendenti) si assiste spesso a situazioni al
limite della dignità e rapporti basati esclusivamente su paura e ricatto.
Ma c'è un altro motivo. Se l'articolo 18 lo si abroga nel
contesto di un depotenziamento totale del contratto nazionale e con la morte
della democrazia sindacale si ottiene un effetto devastante in cui le aziende
si ritroveranno con lavoratori privi di tutele, ricattabili e con sindacati
filo aziendali con a capo qualche prezzolato dell'azienda stessa. Quindi lo
scambio è chiaro: zero tutele all'interno delle aziende, più tutele fuori
dall'azienda in caso di licenziamento. Il paradiso terrestre dei padroni!!.
Per questo l'articolo 18 va difeso con ogni mezzo da
giovani e vecchi, pensionati e disoccupati, da chi lavora dove non può essere
applicato, da chi vive con un contratto precario e flessibile. E' l'ultima
arma in mano ai lavoratori per far valere, a livello generale, un rapporto di
forza nei confronti del mondo imprenditoriale e politico. Crollato quello, le
condizioni dei lavoratori peggioreranno per tutti anche per coloro che a
prima vista possono legittimamente pensare che l'articolo 18 non gli sarà mai
applicato e con la riforma Ichino/Fornero almeno prende qualche soldo che ora
gli viene negato in caso di licenziamento. L'abolizione degli obbrobri
contrattuali e una maggiore tutela economica in un periodo di crisi sono
elementi che servono adesso, senza dover dare niente in cambio.
|
sabato 18 febbraio 2012
L'attacco finale al mondo del lavoro
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento