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sabato 18 febbraio 2012

L'attacco finale al mondo del lavoro

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di Italo Di Sabato
Nell'ultimo mezzo secolo nel rapporto tra capitale e lavoro ci sono stati tre capisaldi che hanno messo sulla bilancia del lavoratore un peso che riequilibrasse tale rapporto: il contratto nazionale, la rappresentanza sindacale e l'impossibilità di essere licenziati, se non per giusta causa, nelle aziende sopra i 15 dipendenti (Art. 18). Di questi tre capisaldi ne è rimasto concretamente solo uno ed è l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Il modello Marchionne ha spazzato via nel gruppo Fiat sia il contratto nazionale che la Fiom, ormai esclusa da tutto. Il famigerato art. 8 della manovra estiva del governo Berlusconi, che consente di fare accordi “in deroga ai contratti e alle leggi”, ha invece ridotto di fatto a pura forma tutti i restanti contratti nazionali dando la possibilità di deroghe locali con la semplice firma di un sindacato compiacente e pilotato interno all'azienda.
Questa premessa serve per capire quale sia il contesto in cui si sta aprendo il dibattito sulla “riforma” del mercato del lavoro. Sul piatto, oltre alla volontà di Monti e della Ministro Fornero a mettere mani cancellando l'art.18,  ci sono tre proposte, tutte di personaggi in area PD o ex Cgil (Ichino, Damiano, Boeri) ma tutte ruotano intorno all'abolizione totale o parziale dell'articolo 18 e tutte partono dalla scusa ufficiale che il mercato del lavoro è duale, cioè c'è troppa differenza fra garantiti (cassa integrazione, articolo 18, sussidio di disoccupazione) e precari a vita. Vero, ma non si capisce perché per  “riformare” ci sia bisogno di togliere a chi ha per diventare tutti uguali senza niente in mano.
L'articolo 18, infatti, disciplina quello che succede nel caso in cui un licenziamento sia dichiarato illegittimo e dunque, stabilisce quello che succede quando un datore di lavoro licenzia senza motivo un lavoratore. Se il motivo è giusto invece l'art. 18 non interviene e l'azienda può licenziare il lavoratore come disciplinato dall'art, 2119 del codice civile. Ma a parte questo viene spontanea una domanda: cosa c'entra l'art. 18 con la “riforma” del mercato del lavoro e quella degli ammortizzatori sociali? Nulla, come quando ci propinano che con  i contratti precari e flessibili si sarebbe risolto il problema della disoccupazione giovanile e invece era ed è uno strumento per abbattere il costo del lavoro e togliere ogni tutela ai giovani stessi.
L'articolo 18 non è quindi un elemento che impedisce il cambiamento, ma è solo la merce di scambio che governo, confindustria e partiti conviventi vogliono per mettere mano alle storture e alle ingiustizie di 15 anni di pacchetto Treu e legge Biagi. In linea generale la “riforma” Ichino/Fornero mette sul piatto l'abolizione delle 40 tipologie di contratti precari, con un contratto unico per tutti e l'allungamento del periodo di copertura del sussidio di disoccupazione (4 anni, 90% dell'ultimo salario il primo, e poi a scalare 80%, 70% e 60% negli anni successivi) più una buonuscita pari a una mensilità di salario per ogni anno di anzianità aziendale (con un tetto massimo). Ciò si applica solo a chi ha almeno un anno di anzianità all'interno di una stessa azienda e se il disoccupato stipula un accordo di ricollocazione con una apposita agenzia privata, che gli eroga il sussidio (anche con proprie risorse, aggiuntivamente alle risorse provenienti dal sussidio oggi a carico dell'Inps) e che ha interesse economico a sistemarti velocemente il lavoratore in un nuovo contesto produttivo (quindi arriveranno proposte continue anche di lavori mediocri e malpagati e in caso di rifiuto c'è il rischio di perdita del sussidio). In cambio di questa “riforma”, governo e confindustria vogliono l'articolo 18, cioè la libertà di licenziare sempre e senza giusta causa, solo perché sei brutto o perché hai chiesto qualcosa che ti spetta, o perché sei iscritto ad un sindacato che all'azienda non piace.
Perché per loro è cosi importante questo articolo dello Statuto dei Lavoratori? Perché è l'unica forza che ha il lavoratore per far valere i propri diritti e bilanciare il rapporto di debolezza e subordinazione che ha nei confronti dell'azienda. Infatti laddove non si può applicare (aziende sotto i 15 dipendenti) si assiste spesso a situazioni al limite della dignità e rapporti basati esclusivamente su paura e ricatto.
Ma c'è un altro motivo. Se l'articolo 18 lo si abroga nel contesto di un depotenziamento totale del contratto nazionale e con la morte della democrazia sindacale si ottiene un effetto devastante in cui le aziende si ritroveranno con lavoratori privi di tutele, ricattabili e con sindacati filo aziendali con a capo qualche prezzolato dell'azienda stessa. Quindi lo scambio è chiaro: zero tutele all'interno delle aziende, più tutele fuori dall'azienda in caso di licenziamento. Il paradiso terrestre dei padroni!!.
Per questo l'articolo 18 va difeso con ogni mezzo da giovani e vecchi, pensionati e disoccupati, da chi lavora dove non può essere applicato, da chi vive con un contratto precario e flessibile. E' l'ultima arma in mano ai lavoratori per far valere, a livello generale, un rapporto di forza nei confronti del mondo imprenditoriale e politico. Crollato quello, le condizioni dei lavoratori peggioreranno per tutti anche per coloro che a prima vista possono legittimamente pensare che l'articolo 18 non gli sarà mai applicato e con la riforma Ichino/Fornero almeno prende qualche soldo che ora gli viene negato in caso di licenziamento. L'abolizione degli obbrobri contrattuali e una maggiore tutela economica in un periodo di crisi sono elementi che servono adesso, senza dover dare niente in cambio.


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