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venerdì 6 aprile 2012

Licenziamenti, sfruttamento e ricatto: ecco la “riforma” del lavoro

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Scritto da Paolo Grassi   
Venerdì 23 Marzo 2012 16:36
Chiusa la trattativa giovedi 22 marzo, il governo con l'appoggio di Confindustria e i soliti sindacati compiacenti, Cisl e Uil, si avvia a portare in parlamento una nuova controriforma. Dopo tanti tentativi i padroni stanno per raggiungere la tanto agognata meta: cancellare il fatidico articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Non c'era riuscito Berlusconi nonostante i tanti tentativi in questi ultimi 10 anni, ci riesce invece il governo sostenuto dal Pdl ma soprattutto dal Partito democratico. Festeggia Marchionne, esulta Caprotti, padrone di Esselunga che solo negli ultimi cinque mesi ha espulso 25 lavoratori colpevoli di aver aderito a degli scioperi ed essersi iscritti a un sindacato a lui non gradito, esulta il padronato perché sempre di più si sente sicuro di poter instaurare il terrore nelle fabbriche.

La nuova controriforma del lavoro vede alla fine il No della Cgil.
Dopo settimane di inutili ed estenuanti trattative la segretaria della Cgil Susanna Camusso ha dovuto dichiarare la propria contrarietà al pacchetto preparato dal governo. Non era scontato. Meglio tardi che mai.

Il no della Cgil

Cosa non scontata per molte ragioni. La prima è la campagna mediatica che da tempo governo e padroni stanno mettendo in campo descrivendo chi accede alla cassa integrazione o allo Statuto dei lavoratori come dei privilegiati difesi da una lobby (i sindacati) che impedisce a milioni di giovani di inserirsi nel mondo del lavoro. In secondo luogo perché non avendo mai, in primis la Cgil, voluto farsi carico di una seria battaglia per estendere articolo 18, ammortizzatori sociali anche alle piccole aziende e in tutte le categorie, oggi il padronato punta in particolare su questa disparità di diritti per dividere i lavoratori. Cosa che ha già seriamente dimostrato di voler fare tenendo, per ora, fuori i lavoratori dell'impiego pubblico da questa controriforma.

Sembra quindi che ci si prepari a dar battaglia. Nel direttivo della Cgil che è seguito alla rottura con Monti sono state prese decisioni importanti. Uno sciopero generale di 8 ore, altre 8 da decidere a livello territoriale, una campagna massiccia di assemblee informative, una campagna raccolta firme per demistificare la campagna del governo, manifestazioni sotto i palazzi del governo.

Sicuramente iniziative di lotta non ancora sufficienti per respingere l'attacco in corso, vista la portata dello scontro, ma comunque un inizio più incoraggiante del penoso sciopero di tre ore dello scorso dicembre contro quella che è stata definita dalla stessa Cgil come la peggiore controriforma delle pensioni della storia. Sciopero che vide una scarsissima partecipazione dei lavoratori perché palesemente inutile.
L'unità nazionale sotto il caminetto
Il problema quindi che si pone ora, preso atto che almeno nelle intenzioni il gruppo dirigente della Cgil è disposto a lottare, è capire come creare le condizioni a noi più favorevoli per la mobilitazione.
La prima questione quindi è chiarire per cosa lottiamo.
Lottiamo per convincere Monti a riaprire il tavolo?
Lottiamo perché le impetuose mobilitazioni che speriamo di suscitare permettano al Partito democratico in parlamento di abbellire la controriforma?
Oppure lottiamo perché questa controriforma è irricevibile e va rispedita al mittente?
Tutta la controriforma è costruita su tre assi portanti: peggiorare le condizioni di lavoro, aumentare la ricattabilità e pagare alle banche gli interessi sul debito risparmiando sugli ammortizzatori.

Articolo 18: il licenziamento viene considerato discriminatorio e quindi nullo se determinato da ragioni di credo politico, religioso o per la partecipazione all'attività sindacale. Il problema pero' è che mai nessun padrone, a meno che non sia particolarmente stupido, motiverà un licenziamento con uno di questi argomenti. Per tutti gli altri licenziamenti, disciplinare o per motivi economici (non solo perché l'azienda è in crisi) nel caso non sussista la giusta causa comunque il lavoratore non sarà reintegrato ma riceverà un indennità stimata tra le 15 e le 27 mensilità.

Precarietà: vengono confermate tutte le tipologie vergognose partorite in questi anni. Semplicemente si millanta una azione di controllo più puntuale, in particolare per i contratti a progetto e le partite Iva. Ci concedono quanto già la legge dovrebbe garantire. Ci assicurano che il lavoro precario costerà di più di quello a tempo indeterminato, ben l'1,4%, una miseria. Intanto aumentano l'aliquota dei lavoratori a progetto, che ovviamente i padroni scaricheranno sulle retribuzioni dei lavoratori, si apre definitivamente la strada all'apprendistato. Ovvero contratti precari che durano dai 3 ai 5 anni e che permetteranno ai padroni di pagare poco i lavoratori ricattati e quasi nulla di contributi.

Ammortizzatori sociali: viene abrogata la Cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività e la mobilità. Se prima tra Cassa integrazione e mobilità un lavoratore riusciva a mantenere un minimo di copertura economica che variava dai tre ai cinque anni, oggi la copertura sarà al massimo di dodici mesi fino a un massimo di diciotto per quelli con più di 55 anni. Alla base del nuovo sistema di sostegno al reddito ci sarà l'Aspi. Dicono che si passa al sistema universale, non è vero. Per accedervi bisogna aver lavorato almeno 52 settimane negli ultimi due anni. I precari e i disoccupati che lavorano meno di un anno su due non avranno nulla. Anche l'assegno viene significativamente ridimensionato. Di fatto si risparmia sugli ammortizzatori, visto che la platea rimarrà la stessa se non più ampia ma i soldi saranno meno. Contro gli 8 miliardi di euro spesi in un  anno ora sul tavolo ce ne sono 1,7.

Per cosa dobbiamo lottare
Un vero proprio massacro. Ma proprio perché la posta in gioco è alta adeguata deve essere la risposta e le rivendicazioni con cui costruirla.
Come si fa a coinvolgere la maggioranza dei lavoratori l’articolo 18 già non esiste nelle aziende sotto i 15 dipendenti?
Come si fa a difendere gli ammortizzatori e un assegno di disoccupazione adeguato, cosa che quello attuale non è, se chi ha un contratto a progetto o una finta partita Iva non vi può accede? E soprattutto; contrastiamo questa “riforma” per difendere l'attuale sistema legislativo sul precariato, su cui si basa il ricatto in cui vivono milioni di lavoratori?
Questo problema la maggioranza della Cgil non se lo pone. Anzi nel direttivo nazionale tenutosi il 21 marzo l'indicazione che è emersa nel documento finale è stata che si lotta per modificare in parlamento un testo di legge che comunque ha, sulla precarietà, ottenuto miglioramenti. Documento che anche sull'articolo 18 mantiene una certa ambiguità. Non per nulla il segretario della Fiom aveva proposto una formulazione semplice quanto chiara: sull'articolo 18 non si tratta. Emendamento bocciato dalla maggioranza. Per questo motivo Landini e La Cgil che vogliamo si sono astenuti e Cremaschi ha votato contro.
Non si può pensare di chiamare i lavoratori alla battaglia campale  per chiedere di modificare comunque in peggio l'articolo 18. Magari sposando la proposta del PD di assumere il modello tedesco dove comunque è il giudice che ha l'ultima parola su reintegro o indennizzo.
La disponibilità alla mobilitazione c'è, la manifestazione con sciopero generale della Fiom il 9 marzo lo dimostra. Si è toccato con mano la determinazione degli operai.
La disponibilità si registra anche nei tanti scioperi aziendali convocati in questi giorni. Ce lo mostra la grossa difficoltà che hanno Cisl e Uil. Un caso su tutti la Magneti Marelli di Bologna, fabbrica salita alle cronache per l'espulsione della Fiom dalla fabbrica da Marchionne, dove i delegati di Fim e Uilm sono stati costretti a convocare lo sciopero.
Quello che deve essere chiaro è che non ci si possiamo permettere una mobilitazione che abbia come fine quello di dimostrare che per fare le controriforme ci voglia anche la mediazione con la Cgil.
Questa lotta deve avere come obiettivo quello di fermare i piani padronali, ovvero il ritiro della “riforma”. Che nella sostanza significa la caduta del governo.
Per fare ciò serve una mobilitazione generale vera come da tempo non vediamo. Serve il protagonismo in prima fila dei lavoratori, oggi questo è possibile a patto che l'iniziativa non venga lasciata in mano ai vertici sindacali.


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