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giovedì 26 gennaio 2012

Mercato del lavoro e art. 18. Licenziare in Italia è troppo facile

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La liberalizzazione più urgente? Democrazia nella rappresentanza
Si è aperto il tavolo sulla «riforma del mercato del lavoro». Non si è parlato di art. 18, ma solo perché - come dichiarato da Elsa Fornero - «servono soluzioni condivise ma sui licenziamenti sarò radicale». D'altronde «è l'Europa che ce lo chiede!».
Effettivamente l'UE ha il potere di dettare regole comuni in materia di licenziamento individuale (art. 153.1.d del Trattato), ma è competenza condizionata dalla regola dell'unanimità, fino ad oggi rimasta inattuata. E allora? A chiedercelo non è l'Europa, ma la lettera indirizzata al governo italiano dai Presidenti (uscente e subentrante) della Banca centrale europea il 5 agosto 2011, nonché lo scellerato Patto Euro Plus firmato il 25 marzo scorso da Berlusconi.
Ciò che si può intanto dire è che non solo l'Europa non ce lo chiede ma non potrebbe neppure farlo. E infatti l'Ocse ha formulato indici sulla c.d. «rigidità in uscita» da cui si evince che, se l'Italia dovesse adeguarsi agli standards europei, dovrebbe rendere più difficili i licenziamenti, e non più facili. Tali indici, infatti, collocano attualmente l'Italia (punteggio 1.77) ben al di sotto della media europea: appena sopra alla Danimarca (1.63), comunemente presentata come campione di flessibilità (ma con «ammortizzatori sociali» incomparabili con quelli italiani) e ben al di sotto non solo di tutti gli altri paesi del nord Europa (Germania in testa: 3.00), ma anche di molti paesi dell'est (come Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia, rispettivamente a 1.92, 3.05 e 2.06).
La prima riforma da fare, l'unica «liberalizzazione» assolutamente indispensabile e a costo zero si chiama democrazia sindacale. Ma non è sull'agenda del governo e delle forze che lo sostengono. Tale esclusione cancella dal dibattito (e dall'informazione mainstream) i veri problemi di scottante - quanto taciuta - attualità. Dal primo gennaio 2012 per tutti i dipendenti Fiat non esiste più la possibilità di eleggere i propri rappresentanti, che vengono scelti sulla base di chi - senza consultare i lavoratori - ha deciso di firmare lo scorso 17 dicembre un nuovo contratto che non solo abroga definitivamente ogni anche larvata forma di democrazia, ma addirittura vieta lo sciopero, colpisce i malati con la progressiva sottrazione della paga e - grazie all'art. 8 della manovra di ferragosto - «deroga a quanto previsto dal Dlgs 66/2003» (che stabilisce l'orario massimo di lavoro e il periodo minimo di riposo).
Lo scorso 13 dicembre Federmeccanica ha invitato tutte le migliaia di aziende affiliate a non riconoscere più dal primo gennaio «i diritti sindacali disciplinati dal c.c.n.l.» (trattenute sindacali, permessi ecc.) al più grande sindacato di categoria e cioè la Fiom - stante la mancata sottoscrizione del contratto separato del 2009 - i cui iscritti vengono così a trovarsi nella stessa condizione in cui sono, in tutti i settori di produzione e da sempre, quelli delle organizzazioni del sindacalismo di base, cui viene negato ogni diritto alla rappresentanza. È questa la vera «anomalia» europea: in tutti i paesi della Ue (unica eccezione l'Inghilterra) prevedono il sistema dual channel della rappresentanza: un canale sempre elettivo e rappresentativo dei lavoratori e un separato «canale associativo» e negoziale. Perciò l rifiuto di sottoscrivere un contratto capestro mai può negare il diritto dei lavoratori ad eleggere i propri rappresentanti ed il conseguente diritto/dovere degli eletti a svolgere la propria funzione. Per questo sorprendono e dispiacciono le recenti dichiarazioni di Landini, che chiede di tornare alla vecchia formulazione dell'art. 19 dello Statuto. Che consentirebbe, sì, alla Fiom di riavere l'agibilità sindacale, ma non in quanto scelta dai lavoratori, bensì in quanto federata alla Cgil.
I licenziamenti più facili, dicevamo, ce li chiede il semiclandestino «
Patto Euro Plus» del 25 marzo scorso che - non a caso - obbliga l'Italia a ridurre il debito sino al 60% in rapporto al Pil con una riduzione annua del 5% (impegno che - se rispettato - avrà effetti economici e sociali del tutto paragonabili ai «debiti di guerra» che portarono la Germania, dopo il primo conflitto mondiale, prima alla rovina sociale ed economica e poi al nazismo).
C'è un filo indissolubile (ed è l'ossatura del programma del Governo Monti e del diktat della Bce) che lega politiche fiscali recessive e tagli alla spesa sociale, progressivo indebolimento delle tutele dei lavoratori (a partire da quella «stipite», contro il licenziamento ingiusto) e cancellazione di ogni democrazia sul lavoro come nella società. Limitarsi ad invocare il ritorno indietro delle lancette è oggettivamente perdente. Ciò che occorre fare è provare a rovesciare l'agenda, perché solo da un nuovo e consapevole protagonismo delle donne e degli uomini che lavorano e da un'integrale inversione di marcia rispetto alle manovre di tagli potrà ripartire l'Italia e l'Europa.
Se dovessimo dirla con il titolo di un convegno: «Riformare l'art. 18 dello Statuto? No! Contro la crisi: rappresentanza, democrazia e pluralismo sindacale».

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