Sabato di recupero allo stabilimento Fiat di Pomigliano. Fiom, Slai Cobas e
Comitato cassaintegrati manifestano per chiedere l’introduzione di contratti
sociali. La Fiat risponde chiedendo l’aiuto delle autorità competenti per
arginare la protesta.
Ieri è stato il primo sabato lavorativo di recupero allo
stabilimento Fiat di Pomigliano. È arrivato un inaspettato picco di domanda
produttiva grazie alla richiesta di modelli Panda da parte di società di
autonoleggio. Chi già lavora, lavorerà di più. Chi è in cassa integrazione da
anni, continuerà a restare a casa. Fiom, Slai Cobas e Comitato di lotta
cassaintegrati hanno manifestato il loro dissenso perché i conti non
tornano.Qualche giorno fa l’amministratore delegato Marchionne,
all’assemblea di Confindustria, ha parlato di un piano Marshall: “La Fiat non
chiuderà nessuno stabilimento in Italia anche se sarebbe la scelta più
razionale” – laddove per razionale si intende profittevole in gergo
cinico-manageriale – asserendo inoltre che il progetto “porterà in tre o
quattro anni al pieno impiego dei lavoratori”. O il progetto quadriennale
prevede riassunzioni di massa allo scadere del quarto anno oppure non comincia
con il piede giusto. Come mai davanti a un picco produttivo non si coglie
l’occasione per dare lavoro ai cassaintegrati invece di chiedere straordinari a
chi è già occupato? I sindacati che hanno firmato l’accordo si giustificano
dicendo che in questo modo ben quindici persone torneranno in fabbrica. I
sindacati che sono rimasti fuori dai cancelli chiedono contratti
sociali, l’unica soluzione che permetta davvero il rientro dei duemila
esclusi: “Lavorare meno, lavorare tutti”. Da quindici a duemila la strada è
lunga. Ed è soprattutto tortuosa vista la scarsa corrispondenza tra i proclami
di Marchionne ed i fatti.
Preoccupante anche l’esposto presentato venerdì dalla Fiat alla Procura
di Nola. La casa torinese temeva un picchettaggio che impedisse l’entrata
dei lavoratori “provocando gravi danni occupazionali e patrimoniali
all’azienda”. I danni patrimoniali, qualora fosse andata così, sarebbero stati
effettivi; ma nell’espressione “danni occupazionali” c’è un fare minaccioso che
non può essere casuale se proviene da chi come l’amministratore delegato Fiat è
già stato indagato per violazione dei diritti sindacali. Timori, quelli
provenienti dal Lingotto, smentiti dai fatti, visto che la manifestazione è
stata democratica: due contusi ma nessuna reale minaccia nei confronti degli
operai in entrata nello stabilimento. Maurizio Mascoli, segretario regionale
Fiom, in una intervista riportata dal giornale Lettera 43 ha dichiarato che “le
uniche minacce sono state quelle di Fiat per intimidire i lavoratori a non
partecipare allo sciopero”.
Per il momento la distribuzione equa di oneri e onori non sembra all’ordine
del giorno nella sede di Pomigliano. Ma non potrebbe essere altrimenti
nell’azienda madre del capitalismo all’italiana in cui il top manager Marchionne,
secondo quanto riportato dal “Sole 24 Ore”, avrebbe guadagnato 7,4
milioni di euro nel 2012, quasi il doppio dell’anno precedente. Confrontato
ai dati degli altri colleghi europei sembrerebbe tutto normale se non
fosse che a questi vanno aggiunti 4 milioni di azioni Fiat spa e 4 di azioni
Fiat industrial per un totale calcolato di 50 milioni di euro lordi.
Un’infinità. Inoltre resta allarmante la scelta strategica di retribuire un
manager con così ampie quote di stock option. Finanza e produzione economica
non sono fedeli sorelle nella gestione dell’impresa: per dirne una, i titoli in
borsa salgono se si tagliano i costi del lavoro con licenziamenti, anche se la
produzione dovesse conseguentemente calare. Se si lega così massicciamente lo
stipendio dell’amministratore alla remunerazione azionaria, appare difficile
che la Fiat possa realmente tornare a dare priorità alla produzione,
all’occupazione ed alla distribuzione equa della ricchezza. Come invece
dichiarato a parole. I conti non tornano.
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